«Noi italiani dovremmo essere strateghi, invece siamo tattici. E il tattico è quello che aspetta l’errore dell’altro per fregarlo»
«A Berlusconi dicevo: “Presidente, tra i suoi collaboratori lei vorrebbe elementi non affidabili? E perché allora vuole darli a me?».
MILANO - Le classifiche che non sono basate su dati oggettivi sono sempre “complicate”. Possono essere interpretate, possono essere contestate. Quella compilata da France Football riguardo ai migliori allenatori della storia mette però un po’ tutti d’accordo. Il numero uno? Il genio olandese Rinus Michels. A seguire la volpe scozzese Alex Ferguson e il rivoluzionario italiano Arrigo Sacchi. Con buona pace del profeta olandese Johan Cruijff e dell’innovatore spagnolo Pep Guardiola, finiti giù dal podio.
«Rivoluzionario? In Italia lo sei quando pensi e fai delle cose semplici - ci ha raccontato proprio Sacchi, il “Profeta di Fusignano”, in libreria con il suo ultimo libro: “Il realista visionario. Le mie regole per cambiare le regole” - Noi italiani siamo presuntuosi e la presunzione è la peggiore delle bestie. Siamo una nazione gattopardesca, siamo il Paese delle corporazioni e delle mafie. Siamo mafiosi nell’animo».
Stiamo ancora parlando di pallone?
«C’è uno studio che dice che il calcio è il riflesso della storia e della cultura di un Paese. L’Italia è stata grande nell’antichità, con i Romani, e fino al Seicento. Oggi non lo è più. È un Paese individualista con un enorme problema culturale: ci accorgiamo di non essere all’altezza e invece di impegnarci per cambiare, per migliorare, ricorriamo alle scorciatoie».
Messa così, sembra non ci sia una via d’uscita.
«Purtroppo non c’è. Io non la vedo».
E lo stesso vale, dunque, per lo sport.
«Da noi il calcio è interpretato come uno sport individuale e difensivo. I padri fondatori, anno 1873, lo hanno invece concepito come uno sport di squadra e offensivo. Come vedete c’è qualcosa che non va. E per il discorso che facevo prima, del pallone espressione del Paese nel quale è giocato, anche in Svizzera avete i vostri problemi: vorrei ricordarvi che il ruolo del “libero” è stato inventato da un austriaco (Karl Rappan, ndr) che ha allenato tanto da voi, nei club e in Nazionale».
La difesa in sé non è un peccato.
«Così com’è la storia, è il calcio. Ricordatelo. L’Italia ha un passato glorioso, pregno di bellezza. Oggi invece siamo tutti tattici, nella vita di tutti i giorni come nello sport. E il tattico è quello che aspetta l’errore dell’altro per fregarlo. Invece dovremmo essere strateghi».
Tattica e strategia… come raccontava Sun Tzu.
«Esatto, grande generale e filosofo cinese vissuto tra il sesto e il quinto secolo avanti Cristo. Diceva che quando un tattico incontra uno stratega sente odore di sconfitta».
La strategia, nel calcio, cos’è?
«Organizzazione. In Svizzera, per esempio, siete organizzati. I club sono attrezzati, ci sono ottime strutture e puntate molto sui giovani. Sul campo in generale è invece figlia di scelte coraggiose. E di tre componenti essenziali. Si devono avere dei giocatori molto motivati, ci deve essere un elevato spirito di squadra, e poi è indispensabile il gioco. Se posso fare un paragone con la cinematografia, il gioco è paragonabile alla trama perfetta. Voi avete mai visto un film senza trama? Io sì, uno statunitense, non ci ho capito nulla».
Il gioco viene prima di tutto.
«Ma anche in questo caso è difficile far passare il concetto. Quando ero a Mediaset, per esempio, le riprese delle partite erano sempre molto strette. Inquadravano i calciatori molto da vicino, con dei primi piani. E io mi battevo: “Ma cosa sono attori? È Brad Pitt?”. Quando ero al Milan, dissi che il mio Angelo Colombo aveva vinto in tre anni più di quanto avesse vinto Maradona nel Napoli. E a livello tecnico i due erano imparagonabili. Questo perché noi pensavamo come squadra, e per questo potevamo superare senza problemi le assenze di giocatori anche forti, mentre i partenopei puntavano sulle individualità. Ve ne dico un’altra: nella vecchia Coppa dei Campioni si disputavano in tutto nove partite. Un anno, Ruud Gullit non potemmo praticamente mai schierarlo. Finì che comunque arrivammo a sollevare il trofeo. Ci riuscimmo perché ci comportammo da squadra, da gruppo nel quale i singoli si mettono al servizio del collettivo. Ma questo è possibile quando lavori con delle persone affidabili. Con professionisti che non sono avidi e menefreghisti e che sono invece intelligenti».
Funzionali.
«Ecco, perfetto, funzionali è la definizione giusta. Nel mio Milan c’era, per esempio, un calciatore molto tecnico, bravo ma lentissimo. E io dissi che non lo volevo. Ce n'era un altro che giocava da solo e io dissi che non lo volevo. Guardavo la persona, non guardavo i piedi. Non volevo giocatori già affermati e volevo solo uomini affidabili. Ne parlavo spesso con Berlusconi, mi diceva: “E chi compriamo al posto di quello che mandiamo via?”. E rispondevo: “Presidente, tra i suoi collaboratori lei vorrebbe elementi non affidabili? E perché allora vuole darli a me? Non compriamo nessuno, puntiamo sulla riserva, sarà meno bravo ma è sicuramente più affidabile”».
Per raggiungere un risultato ritiene indispensabili organizzazione e trama. Fondamentali sono però anche le possibilità, altrimenti il successo sarebbe alla portata di tutti. Club e Nazionale svizzeri potrebbero primeggiare.
«Devi sempre pensare di poter migliorare ma lo puoi fare solo muovendoti tra i paletti posti dalla storia e dallo stile del club o del Paese che rappresenti. Questi vengono prima della squadra. E ovviamente prima dei giocatori. La mentalità, quella è difficile cambiarla. E i successi non sono mai casuali. Possono arrivare, è vero, ma una vittoria senza merito non è una vera vittoria».