«Yogurt e tartare erano le uniche cose che riuscivo a inghiottire, ho perso sette chili in quindici giorni»
«A mia moglie hanno detto: “In tanti anni non mi era mai capitato di vedere una cosa del genere”, ma poi è caduta la linea».
LUGANO - Milletrentacinque match ufficiali in National League, tra regular season e playoff, sono un’enormità. Una vita intera dedicata all’hockey, contando poi pure gli anni trascorsi da direttore sportivo dei Rockets. Una vita fatta di emozioni, trionfi, cadute, gioie e dolori. E aneddoti. Come quelli di cui è piena la valigia di Sébastien Reuille. Una valigia che, ora che disco e ghiaccio li guarda da fuori, il 42enne ha aperto per noi.
«Ci sono tanti aneddoti divertenti che potrei raccontarvi - ha spiegato proprio Seba - Visto che siamo a febbraio e febbraio è per me un mese particolare, parlerò invece della giornata che ha cambiato la mia vita».
È una ricorrenza?
«Sì. Nel febbraio 2012, a inizio mese, in allenamento ho preso il disco in bocca. Fatemi però cominciare dall’inizio. Ricordo un pomeriggio a giocare all’aperto con mia figlia, sotto la neve. E la neve a Lugano, abbondante intendo, è un evento abbastanza raro. E poi ricordo, dopo la notte, la difficoltà nel raggiungere la Resega con la mia Mini Cooper. Avevo le gomme invernali, ma quell’auto così bassa era difficile da far andare dritta. Sono comunque arrivato alla pista per l’allenamento. Abbiamo fatto tutta la seduta normale e poi, alla fine, noi della terza e della quarta linea ci siamo fermati per provare un po’ il powerplay. Non ricordo perfettamente chi era sul ghiaccio con me, solo che il mio compito era quello di passare dietro la porta per farmi trovare pronto per un secondo passaggio o per prendere il rebound. Abbiamo provato una prima volta e chi ha tirato lo ha fatto senza la giusta convinzione. Patrick Fischer ha quindi urlato: “Tira più forte, così non segnerai mai”. Allora abbiamo ripetuto l’azione, io ho fatto il mio movimento, è partita la conclusione, il disco ha mancato la porta per centimetri, millimetri, e mi ha preso in bocca».
Un dolore tremendo?
«No, uno shock piuttosto. Ho sentito l’impatto, non il dolore. Sono caduto sul ghiaccio e lì ho visto una macchia di sangue che diventava sempre più grande. Solo a quel punto ho realizzato che qualcosa non andava. Con la lingua sentivo che in bocca avevo qualcosa di strano. Ho perso subito tre denti e ho subìto tre fratture che hanno interessato la mandibola. Dal naso fino alla gola e il fianco del palato. Diciamo che è “caduta” tutta la parte sinistra. E il labbro… era attaccato solo per un lembo di pelle».
È stato uno shock anche per chi ti ha soccorso.
«All’epoca il massaggiatore del Lugano era Andy Hüppi, che ha avuto la prontezza di riflessi di chiamare il dentista invece che l’ospedale. Il dentista e mia moglie, ovviamente. E qui c’è stato un altro piccolo dramma. A Simone ha fatto in tempo a dire: “È successo qualcosa a Seba e devo dirti che in tanti anni non mi era mai capitato di vedere una cosa del genere”, prima che la comunicazione saltasse, probabilmente per la neve. E per mezz'ora mia moglie non ha saputo più nulla. Potete immaginare il suo stato d’animo. Insomma, nella confusione siamo andati velocemente nello studio del dottore Leandro Antonini, dove ovviamente c’erano tante persone in attesa del loro turno, e, saltata la fila, sono stato subito ricevuto. E operato. Mi sono risvegliato dopo quattro ore di intervento e 80 punti».
Spavento, dolore, riposo?
«Sono rimasto due giorni a casa ma poi sono tornato nello spogliatoio. Mancavano tre settimane ai playoff, il dottore non voleva farmi giocare ma alla fine ha ceduto. Non ero al massimo, tanto è vero che a furia di mangiare yogurt e tartare, le uniche cose che riuscivo a inghiottire, avevo perso sette chilogrammi in quindici giorni, ma sono presto tornato in pista. Con la griglia, ovviamente. Ho segnato già prima della fine della regular season e in postseason sono andato molto bene».
Rinforzando l’aura da guerriero.
«Devo essere sincero, è stata dura. Ho avuto il supporto dei famigliari e degli altri giocatori ma, comunque, a lungo ho avuto paura. Ogni volta che ero sul ghiaccio e il disco si alzava, avevo timore che potesse finire in faccia a qualcuno. Per superare il trauma mi ha molto aiutato Mattia Piffaretti, psicologo dello sport».
Quando sei tornato ad avere una vita normale?
«Ci è voluto un po’. Tre giorni dopo l’intervento mi sono ripresentato dal dottore per un controllo e lì ho saputo che avrei potuto perdere il labbro lesionato, che invece fortunatamente non era stato “rigettato” dal corpo. Il mese seguente mi hanno poi strappato altri due denti. E in seguito, nei successivi tre-quattro anni, ogni due-tre settimane sono stato costretto a tornare per controlli periodici. Credo di essere riuscito nuovamente a mangiare come una persona normale in tre mesi. Qualcosa però è rimasto: fino a fine carriera ho dovuto portare la dentiera. La mettevo la mattina, la toglievo la sera. Così almeno un paio di volte al giorno mi “ricordavo” di quell’episodio sfortunato. Spesso ciò mi ha portato a riflettere su quello che è lo sport ad alto livello. “Ne valeva la pena?”, mi sono chiesto. All’inizio qualche dubbio l’ho avuto; il fatto di essere rientrato subito, un po’ come quando si cade dalla bicicletta e ci si deve immediatamente risalire, mi ha in ogni caso aiutato. Poi me ne sono fatto una ragione, conscio del fatto che… può succedere. Che fa parte del gioco. Un infortunio grave lo si deve mettere in conto e si deve essere forti mentalmente per accettarlo e superarlo. Nel mio caso ha “toccato” la faccia. E non è stato bello».