Sono tra i protagonisti della pandemia: a tu per tu in occasione della Giornata internazionale dell'infermiere.
La responsabile dell'Area infermieristica dell'EOC: «È un lavoro delicato, in cui si curano persone che si trovano in un momento difficile».
BELLINZONA - C’è chi li ha definiti come eroi. O chi ha parlato di angeli. Sono infermiere e infermieri, tra i principali protagonisti dell’emergenza Covid-19: ogni giorno si trovano in prima linea per curare i malati, ma anche per tenere informati i familiari che attualmente non hanno accesso agli ospedali. A loro e a tutti gli operatori sanitari sono stati indirizzati, nelle scorse settimane, più iniziative: da applausi collettivi a donazioni varie.
La pandemia è scoppiata proprio durante l’anno che l’Organizzazione mondiale della sanità aveva dedicato all’infermiere e all’ostetrica. E oggi si celebra la Giornata internazionale dell’infermiere. In Ticino, soltanto nelle sei strutture dell’Ente ospedaliero cantonale (EOC), se ne contano ben duemila. «È una professione che ha molte sfaccettature e molte possibilità di evoluzione» ci dice Annette Biegger, responsabile dell’Area infermieristica e membro della direzione generale EOC.
Spesso si parla di “infermiera”: è una professione che non viene scelta da molti uomini. Ritiene che la situazione stia cambiando?
«Nel settore infermieristico dell’EOC si conta un 22% di uomini. E il numero è in leggero aumento: si tratta decisamente di un arricchimento della nostra professione. Gli uomini possono essere ottimi infermieri. E per un giovane che decide di scegliere questa strada, oggi ci sono buone prospettive di specializzazione e carriera. Inoltre, un team misto (uomini-donne) normalmente facilita la comunicazione con colleghi e altre figure professionali».
Con la chiusura dei confini, si è parlato molto della dipendenza dall’estero del settore sanitario ticinese. Quanti sono gli infermieri frontalieri all’EOC? È una percentuale da rivedere?
«All’EOC abbiamo un 25% di infermieri frontalieri, un numero costante da diversi anni. Collaboriamo molto bene e si tratta di ottimi professionisti che ci sostengono nella presenza capillare di cure di qualità sul territorio del cantone, come esige il nostro mandato. Si tratta di un aspetto che tocca anche altri cantoni, in particolare quelli di frontiera. Quando dopo la pandemia potremo tornare alla normalità, sarà necessario rivalutare alcuni punti e vedere come possiamo migliorare».
Per evitare una carenza di personale, all’inizio della pandemia l’EOC ha avviato la ricerca di personale infermieristico avventizio residente in Ticino. È stato necessario ricorrere a questi rinforzi?
«Da altri paesi abbiamo compreso che per affrontare questa crisi era fondamentale il numero di infermieri e medici disponibili. Ci siamo quindi subito attivati e la risposta è stata molto positiva, tra infermieri che non lavoravano a causa dell’attività ambulatoriale chiusa, infermieri indipendenti, persone che per scelta avevano abbandonato la professione. Abbiamo potuto condurre oltre 160 colloqui che ci hanno permesso di impiegare 45 persone. Siamo molto grati a tutte le persone che si sono messe a disposizione».
A livello federale è pendente un’iniziativa che chiede di rafforzare e valorizzare le cure infermieristiche: il ruolo dell’infermiere è sottovalutato?
«La pandemia ha messo in evidenza la scarsa visibilità della professione infermieristica in tempi normali. In effetti, gli infermieri non lavorano solo durante una pandemia, ma anche prima e dopo. Sono però contenta che la professione abbia acquistato visibilità. Si tratta di un lavoro delicato, in cui si curano persone che si trovano in un momento difficile e spesso critico. E richiede anche molta discrezione. Forse per questo non pensiamo a farci pubblicità: perché siamo concentrati sulle cure».
Durante la pandemia, in determinati reparti il personale infermieristico ha assistito a un forte calo di lavoro. In altri (soprattutto quelli Covid) l’attività era invece intensa. Com’è stata la risposta di collaboratori all’emergenza?
«La pandemia ha portato con sé molte incertezze. Si trattava di adattarsi continuamente in base agli sviluppi della situazione. In diversi momenti, sul fronte del carico lavorativo c’è stata una forte discrepanza fra gli ospedali. Grazie alla struttura multisito e alla flessibilità dei collaboratori, è stato possibile reagire spostando del personale là dove era più necessario. Per i collaboratori è stato un periodo molto intenso, abbiamo cercato di appoggiarlo al meglio anche con un sostegno emozionale. La risposta in generale è comunque stata ottima: sono fiera di tutto quello che siamo riusciti a fare».
Quando le emozioni devono passare dalla mascherina
«Non siamo degli eroi, anche in questo periodo svolgiamo il nostro lavoro di sempre con dedizione, competenza e professionalità». Così la 29enne Elena Corina Luca, infermiera specialista clinica all’Ospedale Italiano di Lugano, ripensando alle ultime settimane. La sua esperienza professionale in corsia è cominciata cinque anni fa. E la sua scelta per questo lavoro è stata dettata dalla sua volontà «di svolgere un’attività a contatto con le persone, supportandole in momenti difficili della loro vita» ci spiega. Una necessità che ha percepito anche facendo volontariato ai tempi del liceo.
Il contatto coi pazienti porta a vivere, in molte occasioni, esperienze che lasciano il segno. Sono infatti diverse quelle che Corina Luca ricorda, nonostante sia ancora nella sua “gioventù professionale”. Una in particolare riguarda proprio la pandemia: «È un episodio che mi ha toccato molto e che è collegato a uno dei simboli di questo periodo: la mascherina» racconta. «Dovendola indossare sempre, non è facile trasmettere le proprie emozioni. Coi colleghi qualcosa passa dagli occhi, ma coi pazienti non è evidente».
Ma poi c’è stata una signora che la 29enne aveva in cura per la prima volta. «A un certo punto la paziente si è commossa e ha ringraziato me e i miei colleghi per l’umanità dimostrata nei suoi confronti, per la professionalità e per come le siamo stati vicini: mi ha fatto notare che in realtà la mascherina non è una barriera».
Il suo lavoro non è sempre facile: «Bisogna fare i conti coi turni, spesso bisogna trovare un equilibrio per conciliare la vita professionale e quella personale, bisogna pensare anche al proprio benessere». Ma la 29enne non si è mai pentita della sua scelta: «È un ambito che permette di stare vicino al paziente, alla famiglia e alla comunità, in ogni fase della vita».
«C'è stata disponibilità da parte di tutti»
In oltre quarant’anni, Maria Chiara Canonica - responsabile del Servizio infermieristico all’Ospedale La Carità di Locarno, al momento struttura dedicata ai pazienti Covid-19 - ha assistito a molti cambiamenti nel settore. In primis il passaggio dalla carta all’informatica. Ma anche a un diverso approccio da parte dei pazienti, che oggi - ci racconta - «hanno un maggiore accesso alle informazioni».
Ma i cambiamenti ci sono stati anche di recente. E stavolta nel corso di poche settimane a causa della pandemia. «In quarantotto ore l’ospedale è stato completamente riorganizzato e anche il nostro settore ha avuto la capacità di rispondere velocemente alle nuove necessità». E di questo periodo eccezionale - che per lei (oggi 63enne) è immediatamente precedente al suo pre-pensionamento, previsto per il prossimo giugno - Canonica ricorda: «Si è toccato con mano quanto è importante l’aiuto». Non solo quello nei confronti dei malati, ma anche tra colleghi di diversi settori. «Si è messa in moto una catena di aiuto e disponibilità non indifferente».
Come mai consiglierebbe il suo lavoro? Canonica parla della «bellezza della professione» e della «bellezza di aiutare il prossimo, entrando in una relazione molto profonda con chi si assiste». Inoltre, si tratta di un’attività «che permette di scegliere tra innumerevoli ambiti, dalle cure urgenti, all’anestesia, dalla salute mentale alla pediatria».