La campagna anti Covid prosegue: le riflessioni di Marta Fadda, ricercatrice e docente, ospite di Piazza Ticino.
Perché ci sono ancora così tante resistenze? Le autorità avrebbero dovuto creare più spazi di dialogo? Una persona ha diritto di avere paura? E il "passaporto" creerà cittadini di serie A e cittadini di serie B? Guarda la video intervista.
LUGANO - È discriminante dare vantaggi a chi si vaccina contro il Covid-19? È lecito avere paura di vaccinarsi? E che dire inoltre del passaporto di immunità, sempre più discusso? Temi affrontati su Piazza Ticino, la piazza virtuale di Tio/20Minuti, con Marta Fadda, ricercatrice e docente presso l'Istituto di salute pubblica dell'Università della Svizzera italiana.
C'è bufera attorno al "certificato Covid". Che ne pensa?
«È uno strumento di cui si avvale la salute pubblica per limitare al massimo l'intrusione delle politiche sanitarie nella vita del cittadino e nella sua libertà di movimento. Lo si ottiene con la vaccinazione, ma non solo. Anche dimostrando ad esempio di avere già fatto la malattia, e avere dunque gli anticorpi, oppure con un tampone negativo».
La campagna vaccinale prosegue. Giusto dare vantaggi a chi si è vaccinato? Qualcuno in fondo ha il diritto di avere paura di fare un vaccino, o no?
«Certo. La paura può essere legittima. E chi ha paura ha il diritto di essere ascoltato. Da alcuni studi che stiamo portando avanti vediamo che non ci sono solo persone che non si vogliono vaccinare per motivi ideologici. I timori possono essere dovuti al fatto che il vaccino è stato sviluppato in maniera veloce. Si ignora magari che sono stati rispettati tutti i criteri di qualità nella produzione di questo vaccino. La gente necessita di rassicurazioni in merito, ma a volte non le trova».
Quanta responsabilità hanno le autorità? Non è mancata una comunicazione condivisa con la popolazione?
«La percezione che noi abbiamo è che le persone si sono sentite veramente sole nel prendere la decisione di vaccinarsi. Chi ha potuto ne ha parlato col proprio medico di famiglia. Forse più in generale è mancato uno spazio di dialogo. Va anche detto che non c'era tanto tempo per fare altrimenti, la pressione per trovare una soluzione era troppo alta».
Spiegando l'utilità sociale, del vaccino le istituzioni hanno avuto troppa paura di mettere in discussione l'autonomia del cittadino, che in Svizzera è sacra?
«In Svizzera vogliamo salvaguardare a tutti i costi la libertà di scelta individuale. D'altra parte non ci si può dimenticare che non siamo da soli. Siamo parte di una società e di un sistema di relazioni. È anche vero che fare arrivare l'informazione "dall'alto", senza spazi di dialogo, ad alcuni ha trasmesso proprio l'idea di essere in solitudine».
Il Covid ha dimostrato di non avere un andamento lineare. Fa un po' ciò che vuole, in barba anche alle previsioni.
«La vera sfida è imparare a gestire questa incertezza. La scienza parte da ipotesi che poi devono essere smentite o confermate. Il metodo scientifico è un processo non necessariamente lineare. Sicuramente nel momento in cui si diffondono informazioni bisogna mettere in evidenza il metodo usato. Questa è una lezione da imparare, si sarebbe potuto coinvolgere maggiormente la popolazione, spiegare come si arriva a determinate conclusioni e come, nel tempo, queste possano cambiare».
Vaccinati e non vaccinati. Ci saranno cittadini di serie A e cittadini di serie B?
«Il vaccino ci permette di tornare a fare tante cose. Ci riapre tante porte. Pone certamente problemi etici. Anche perché non tutti partono dallo stesso livello di conoscenza. Il tema del vaccino mette in luce disuguaglianze che già c'erano in precedenza».