Troppi edifici storici abbattuti o dimenticati: tutta l’amarezza di Dario Galimberti, architetto e scrittore.
LUGANO - «Come sapremo di essere noi senza il nostro passato?» La frase celebre è dello scrittore statunitense John Steinbeck. A ripeterla con rammarico è Dario Galimberti, architetto e autore de “Il dubbio del delegato (Indomitus Publishing, in uscita a breve)” e di altri gialli storici. Anche l’ultima fatica letteraria dell’architetto luganese fa riferimento a un Ticino che non c’è più. «Un Ticino che distrugge tutto. O che lo dimentica».
I suoi testi rappresentano una sorta di urlo strozzato.
«Dal Quartiere Sassello di Lugano, demolito alla fine degli anni ’30, al Castello di Trevano, abbattuto negli anni ’60, è stato uno scempio continuo. Più recentemente sono sparite Villa Branca e La Romantica di Melide. Così come sono andati persi il Cinema Odeon o il Ristorante Venezia sempre a Lugano. O il Sanatorio di Agra».
Colpa della politica?
«Sì. Ma ragionano così anche i cittadini. Se un edificio ha una funzione pratica, lo teniamo. Altrimenti, se è solo per cultura o storia, lo buttiamo giù. È un pragmatismo che fa paura».
E così poi ci ritroviamo a pensare che le cose belle le hanno solo gli altri…
«Proprio questo è il problema. In Italia, ad esempio, sanno valorizzare molto meglio i nuclei storici. I borghi. Da noi ce ne sono anche di migliori. Ma sembrano non interessarci. Pensiamo al Quartiere Maghetti di Lugano, protagonista del mio ultimo libro. È stato snaturato. Hanno demolito un sacco di cose belle. Per farne di nuove».
Ci sono esempi virtuosi?
«Villa Ciani a Lugano. O i castelli di Bellinzona. Sono stati tutelati, per fortuna. Però trovo ci sia anche un altro problema. Abbiamo tanti gioielli che nemmeno conosciamo. Penso al Convento di Torello a Carona, o al Santuario Madonna D’Ongero di Lugano definito come uno dei luoghi più belli del mondo da Hermann Hesse».
Non siamo capaci né di venderci né di promuoverci?
«Un po’ è così. Non si pensa alla memoria da tramandare. La memoria è la nostra anima, diceva Umberto Eco. Senza memoria non siamo nulla. Qui da noi c’è una logica del mercato che si sovrappone alla memoria. C’è poca cura delle cose che ci ricordano il nostro passato».
È amareggiato?
«Sì. Ma non sono l'unico. Ricordo che lo era già il grande Tita Carloni in un’intervista. Era sconsolato. Non capiva perché i ticinesi non avessero questa sensibilità verso la loro storia. Io provo a lanciare qualche segnale coi miei romanzi. Ma non posso cambiare il sistema da solo».
A cosa ci si può aggrappare?
«Alla scuola. Educare i bambini alla bellezza del nostro patrimonio è l’unico modo per avere poi dei cittadini orgogliosi e consapevoli. Sì, la scuola è la nostra ancora di salvezza».