“High Score”, che racconta la storia dei videogiochi, ha inventiva ma problemi di ritmo. Ai nostalgici però piacerà molto
LOS ANGELES - Dopo due serie dedicate ai giocattoli e ai filmoni degli anni '80 (“I giocattoli della nostra infanzia” e “I film della nostra infanzia”) su Netflix non poteva certo mancare una miniserie sui videogiochi.
Ed ecco arrivare “High Score”, un viaggio parziale – nel senso non completissimo – ma molto ben fatto nel mondo dei videogiochi. A parlare di com'è stato inventare da zero uno dei settori più influenti e redditizi dell'intrattenimento contemporaneo alcuni dei grandi nomi dei games, e anche qualche outsider di lusso.
Da “Space Invaders” fino a “Pac-Man” passando per la lotta delle console fra Nintendo e Sega per terminare con la violenza di “Mortal Kombat” e dello sparatutto “Doom”, la serie punta in maniera efficace sull'effetto nostalgia facendo centro quasi sempre.
Se da una parte mancano alcuni personaggi fondamentali (uno su tutti il papà di Mario e Zelda, Shigeru Miyamoto che viene solo citato), “Hi-score” si rifà raccontando alcune storie un po' oscure e dimenticate: come il primo videogioco dichiaratamente gay o il contributo fondamentale di un semisconosciuto ideatore di console afroamericano.
Un taglio decisamente 2020 che non stona e che dà un'altra prospettiva anche alla dimensione agonistica dei tornei, visto lo sdoganamento del termine e-sport, e i racconti a chi ha partecipato in prima persona alla loro preistoria.
Decisamente da apprezzare la fotografia, l'inventiva degli effetti – con simpatici intermezzi in pixel-art – e il materiale d'epoca. Un po' meno centrato, invece, il ritmo e la direzione della regia con momenti un po' sconclusionati e un discorso che sembra un po' lasciato a metà. Ma non è detto che non si possa recuperare in una seconda stagione... «Continue? Insert coin».
ZAF