Al vaglio una legge che non permetta loro di nascondersi dietro l'anonimità web, ma di mezzo ci sono le aziende hi-tech
SYDNEY - In Australia si è aperta la caccia ai troll, ed è al vaglio del Parlamento una proposta di legge che limiti la possibilità di poter restare anonimi sui social media: «Il mondo online non dovrebbe essere un selvaggio West-ha detto il Primo Ministro australiano Scott Morrison ai giornalisti-dove bot, fanatici e troll e altri possono semplicemente andare in giro in modo anonimo e ferire le persone, molestarle, intimidirle, e attaccarle. Questo non accade nel mondo reale e non c’è motivo per cui debba accadere in quello digitale».
Da creatura immaginaria, a flagello reale
Come è noto, nelle antiche tradizioni nordiche, i troll sono creature dei boschi dal comportamento malevolo e dispettoso, che scambiano in culla i bambini umani con i propri, rubano il bestiame e creano scompiglio nei villaggi. Niente di troppo dissimile dai troll che infestano la società contemporanea.
I troll moderni vivono nella realtà virtuale di internet, il selvaggio West di cui parla Morrison, dove, esattamente come da tradizione, creano enormi problemi con i propri comportamenti irritanti, provocatori, se non violenti, posti in essere al solo fine di disturbare la comunicazione tra le persone e fomentare gli animi. Il termine ‘troll’, mutuato dal mito e attualizzato alla realtà virtuale’, è stato utilizzato, forse per la prima volta, da Judith Donath che, nel 1999, si riferì a loro spiegando che «agire come un troll è un gioco di false identità, compiuto senza il consenso degli altri partecipanti. Il troll cerca di farsi passare per un legittimo utente che condivide gli stessi interessi e argomenti degli altri (...) ma possono danneggiare il gruppo in molti modi. Possono interrompere le discussioni, dare cattivi consigli, e minare la fiducia delle persone». Molto spesso sono persone singole, spinte dall’odio verso gli altri o contrari a un determinato argomento, ma non sono mancati, negli ultimi anni, esempi ben più articolati.
In Russia c'è una fabbrica che li fa
In Russia, per esempio, un decennio fa aprì l’Internet Research Agency, meglio nota come ‘fabbrica dei troll’, che aveva il preciso scopo di usare internet per creare e diffondere notizie false. Le persone molto giovani, e fragili, sono le vittime preferite dei troll che nascosti dall’anonimato garantitogli dalla Rete, minano, nel profondo, il fragile equilibrio di molti adolescenti che, nei casi più gravi, possono arrivare a togliersi la vita. Nel tempo, gli stessi social media sono diventati più attenti al fenomeno ed hanno avviato una campagna di filtraggio delle notizie provenienti da profili noti per porre in essere il cosiddetto ‘trolling.
Nel 2018, Twitter ha messo in atto una nuova strategia di segnalazione automatica di tutte le risposte che si allontanassero dal tema della discussione. Non era, quindi, più l’utente a dover segnalare il troll, ma era il social media stesso a rintracciarlo attraverso un esame incrociato tra più dati, quali l’indirizzo email fornito o la registrazione effettuata su più account diversi.
Lo stesso fece Facebook che arrivò ad analizzare 1,5 miliardi di account e post decretando la chiusura di 583 milioni di profili fasulli oltre che la rimozione di 837 milioni di contenuti spam. Nel novembre scorso, Meta, la società madre che gestisce Facebook e Instagram, ha annunciato di aver chiuso oltre 1.300 account, pagine e gruppi in Nicaragua perché ritenuti responsabili di aver ordito una campagna di disinformazione a favore del governo del presidente Daniel Ortega. Se, fino a ora, la battaglia contro i troll è stata condotta a livello aziendale, ora l’attenzione al problema si è spostato a livello politico.
In Australia è caccia aperta ai troll
Lo scorso 29 novembre, il Primo Ministro australiano, Scott Morrison, ha avanzato una proposta di legge, che potrebbe approdare al Parlamento a inizio anno, che permetta di equiparare l’identità sui social media a quella reale, con tutte le conseguenze del caso qualora si pongano in essere comportamenti offensivi o violenti. Secondo la proposta di legge, al vaglio del governo di Canberra, sarebbe consentito di richiedere alle piattaforme social i dati personali degli utenti che si rendono protagonisti di comportamenti aggressivi o minacciosi o che pubblichino post dal contenuto discriminatorio e razzista.
Secondo tale proposta di legge, le piattaforme social devono raccogliere i dati personali di tutti i propri utenti, sia nuovi che vecchi iscritti, per consentire alla Corte federale di accedere all’identità dei troll e procedere legalmente nei loro confronti nel caso se ne ravvisasse la necessità. Un altro carattere di novità della proposta di legge australiana è che la responsabilità dei comportamenti offensivi degli utenti sarà da riferirsi direttamente ai social network, e non ai gestori delle pagine in cui vengono pubblicati tali tipo di contenuti, che saranno obbligate a vigilare sui contenuti pubblicati dai propri utenti.
Le piattaforme social dovranno invitare costoro a rimuovere i contenuti incriminati, segnalando prontamente alle autorità competenti chi si rifiuta di eliminare tali post. Il primo ministro Scott Morrison ha infatti dichiarato che «le piattaforme digitali devono disporre di processi adeguati per consentire la rimozione dei contenuti, Deve esistere un modo semplice, rapido e veloce per le persone per segnalare tali problemi con queste piattaforme ed eliminarli».
«Un palazzo di codardi»
Già mesi fa, Morrison si era scagliato contro i social media definiti come «un palazzo di codardi dove le persone possono semplicemente andare lì, senza dire chi sono, distruggere la vita delle persone e dire le cose più disgustose e offensive, e farlo impunemente». Come detto, se la legge dovesse essere approvata, la responsabilità della pubblicazione di post offensivi o violenti non sarebbe del gestore delle pagine o del media che ha condiviso un determinato contenuto, ma unicamente del social network.
Questo, come ha sottolineato il procuratore generale federale Michaelia Cash, è dovuto a una storica sentenza della Suprema Corte di Canberra che ha stabilito che chi gestisce delle pagine social potrebbe essere ritenuto un ‘editore’ di commenti offensivi anche se non ha conoscenza della loro esistenza.
«È importante sottolineare-ha detto Morrison- che le riforme garantiranno che gli australiani e le organizzazioni con una pagina sui social non siano legalmente considerati editori e non possano essere ritenuti responsabili per eventuali commenti diffamatori pubblicati sulla loro pagina». Anche il procuratore Cash ha rimarcato l’importanze di spostare la responsabilità dai gestori ai social media perché, come dalla stessa affermato, «i servizi social media devono fare un passo avanti e capire che hanno una responsabilità in tal senso».
Dello stesso avviso è il leader dell’opposizione Anthony Albanese che ha dichiarato che «le persone non dovrebbero essere in grado di nascondersi dietro account anonimi online e impegnarsi in attività inappropriata. Spetta alle piattaforme identificarli». Albanese, però, si è detto scettico sull’efficacia della legge a livello globale; basta infatti munirsi di un indirizzo IP straniero per sfuggire alla normativa australiana.
Quel problema chiamato Big Tech
L’Australia non è nuova alle battaglie con le Big Tech: lo scorso febbraio, Facebook aveva bloccato la condivisione di link e notizie per tutti gli utenti del Paese, in risposta ad un disegno di legge, poi ritirato, che avrebbe costretto i social network a pagare gli editori per condividere le notizie sulle proprie piattaforme. La proposta legislativa messa a punto dall’Australia rappresenta un concreto passo avanti nella lotta a tutte le forme di violenza che si consumano su internet grazie all’anonimato dietro cui possono agire indisturbati i troll.
D’altra parte, la stessa pone seri problemi relativi alla tutela della privacy: in molti Paesi non democratici, i social network sono diventati degli strumenti in mano al Governo per controllare i propri cittadini, in special modo i dissidenti politici e gli oppositori. La legge australiana, se approvata, potrebbe, quindi, costituire un pericoloso precedente che consentirebbe a tali Stati di ottenere i dati personali degli utenti ritenuti scomodi al potere centrale.