Pochi giorni fa sembrava «più vicino che mai». In queste ore è «sull'orlo del fallimento». Come potrebbe peggiorare la situazione?
TEL AVIV / GAZA - Ora il ticchettio delle lancette inizia a sentirsi davvero, simile in tutto e per tutto a quello che si sente nei film quando la bomba di turno sta per esplodere. E chi identificava l'ennesima visita del Segretario di Stato americano in Medio Oriente come "ultima opportunità" per fermare, temporaneamente, la guerra a Gaza, aveva forse ragione. L'accordo infatti, dopo le speranze degli ultimi giorni - quel "mai stato così vicino" intonato dal presidente statunitense Joe Biden -, sembra essere a un passo dal fallimento.
Cauto ottimismo. Poi ottimismo. «Netanyahu ha accettato l'accordo». Quindi la doccia gelata da parte di Hamas. Perché nella bozza - che secondo la milizia islamista palestinese presenta sensibili differenza nelle condizioni rispetto a quella dello scorso 2 luglio - ci sarebbero "paletti" che favoriscono unilateralmente Israele. E si arriva così al pessimismo di queste ultime ore. All'impressione di essere giunti a una sorta di "ultima chiamata" oltre la quale non si intravede alcun piano B. E se l'accordo salta, la situazione probabilmente non resterà quella attuale ma è destinata a peggiorare. O almeno questo è il timore, piuttosto fondato, degli addetti ai lavori.
E non si parla solo di un inasprimento degli scontri dentro alla Striscia di Gaza. Si parla, soprattutto, del temuto allargamento del conflitto, che potrebbe a quel punto coinvolgere attivamente anche l'Iran e trascinare in un'escalation esponenziale tutta la regione mediorientale. Il "worst-case scenario" che tutti, o quasi, vogliono evitare dal pogrom del 7 ottobre scorso.
Perché, vale la pena ricordarlo, la scorsa settimana da Teheran - e con loro anche tutti i suoi "tentacoli" armati, come le milizie di Hezbollah in Libano - sembravano pronti a rinunciare ai propositi di vendetta dopo l'umiliante uccisione del numero uno dell'Ufficio politico di Hamas, Isma'il Haniyeh, avvenuta proprio nella capitale iraniana. Anche perché, pure questo vale la pena ricordarlo, una guerra totale sarebbe per l'Iran uno sforzo estremamente gravoso da sostenere; la Repubblica Islamica fa affidamento sull'esercito per mantenere il controllo della sua instabile situazione interna. E un fronte di guerra aperta diventerebbe, a tutti gli effetti, una questione di sopravvivenza per il Paese.
L'unico che potrebbe trarre un beneficio da questo disastroso scenario, come già indicato da alcuni analisti, è Benyamin Netanyahu, dato che il premier israeliano è consapevole che la fine della guerra sarà molto probabilmente anche la fine della sua parabola politica. E quindi avrebbe tutto l'interesse a portarla avanti il più possibile. O, in questo caso, a iniziarne un'altra.