Nella città assediata i morti vengono seppelliti ai bordi delle strade e nelle fosse comuni. E contarli è impossibile.
Le stime ufficiali parlano di almeno 3'000 civili uccisi dall'inizio dell'invasione. Ma le cifre potrebbero essere sensibilmente più alte.
MARIUPOL - Una città sotto assedio. Un «gelido paesaggio infernale». Un cimitero. Mariupol, lo sbocco strategico e commerciale che si affaccia sulle acque del Mar d'Azov, resiste da settimane pagando un prezzo altissimo. Unica e ultima città rimasta, su quella striscia a est del Paese, sotto il controllo di Kiev.
Difficile dire quante persone abbiano perso la vita in città dall'inizio dell'invasione russa. Prima una. Poi due. Che sono diventate poi dieci, poi cento, poi mille. Dalle ultime stime sul campo si è arrivati all’incirca attorno alle 3’000 vittime confermate.
Le cifre vere però, come hanno ricordato le autorità, sono quasi certamente più alte. Probabilmente neanche di poco. Ma quando il numero dei morti si gonfia a oltranza, oltrepassa una certa soglia e gradualmente mette fuori fuoco i lineamenti dei volti che lo compongono, ci sono le immagini a raccogliere i guantoni da terra per continuare a sferrare i pugni dritti allo stomaco. E gli scatti immortalati nelle strade di Mariupol lo fanno. E colpiscono duramente.
I morti a Mariupol sono ovunque. Sotto le macerie degli edifici, sbriciolati sotto i colpi insistenti dei moderni "martelli di Stalin". In quelle fosse comuni, senza neanche la dignità di un nome o una foto che ne risparmi la memoria, che sono un terribile denominatore comune dei grandi drammi umani. In mezzo alle strade, sul bordo dei marciapiedi, sui balconi. E nelle tombe; ma come quelle che siamo tutti abituati a vedere. Queste sono improvvisate, scavate nei parchi e nei giardini - nel cuore martoriato e silenzioso della città - con un cumulo di terra ancora fresca a sovrastarle e una croce, spesso ricavata inchiodando due pezzi di legno insieme. A volte un nome. Una data. Un mazzo di fiori. Qualcuno che piange.
«In questa città tutti aspettano la morte». Sono parole, affidate a Facebook da una cittadina di Mariupol - il suo nome è Nadezda Sukhorukova - e rilanciate fino a noi da una giornalista del "Kiyv Independent". Parole rassegnate di chi ha la certezza «che morirò presto» e, quindi, non ci crede più. La città martire è assediata ormai da settimane, stritolata e sofferente. La sua gente sopravvive in condizioni che si possono definire solo disumane e, anche volendo, non riesce a essere evacuata, perché non si riescono a concordare corridoi umanitari. E quando accade, questi non vengono rispettati. Le bombe non si fermano. E anche i vivi sono costretti a trovare riparo sotto terra. Ma Mariupol non vuole essere un cimitero. E resiste. La domanda è: per quanto ancora? Settimane? Giorni? Ore?