L'arresto del boss trapanese apre una nuova stagione su due fronti: il futuro di Cosa Nostra e la possibilità di fare luce su tanti misteri
PALERMO - Quello di Matteo Messina Denaro era «un ruolo di garanzia nel trattare gli affari» criminali. All'interno di Cosa Nostra e all'esterno, in sinergia quindi sia con le altre organizzazioni - e lo sguardo si rivolge, naturalmente, in direzione della Calabria - che con l'imprenditoria siciliana. Da questo punto, ribadito ieri in conferenza dal procuratore di Palermo, Maurizio de Lucia, ripartiamo per tracciare un possibile orizzonte, affacciandoci oltre la caduta dell'ultimo padrino.
Alla notizia dell'arresto, la prima domanda a farsi strada non poteva essere che una: e ora? Con tutte le declinazioni possibili. In ottica investigativa, sicuramente, ma soprattutto dal punto di vista di come l'organizzazione metabolizzerà il venir meno di quel punto fermo, che per un trentennio è stato garante di un equilibrio delicato tra i diversi mandamenti. Nella sua Relazione per il secondo semestre del 2021, la Direzione investigativa antimafia (DIA) italiana scriveva, in riferimento al boss di Castelvetrano, che «Trapani fortemente influenzata nel corso degli anni dalla mafia palermitana non può prescindere dal ruolo del latitante Matteo Messina Denaro», che «nonostante la latitanza resterebbe la figura di riferimento per tutte le questioni di maggiore interesse, per la risoluzione di eventuali controversie e per la nomina dei vertici delle articolazioni mafiose anche non trapanesi».
I nuovi equilibri...
Il «re» di Cosa Nostra, lo ha definito Roberto Saviano. Un monarca suo malgrado, si potrebbe precisare, benché amante del lusso e della bella vita. Era l'ultimo grande fantasma. L'ultimo capo di una mafia che oggi, di fatto, non esiste più; infilatasi trent'anni fa in un vicolo cieco fatto di bombe e sangue. Un «capo particolare», lo ha descritto, in un'intervista a "La Stampa" oggi il magistrato Nino Di Matteo, che ha indagato sulla trattativa Stato-mafia. «Ha una storia diversa rispetto ai boss storici. Ha frequentato ambienti nuovi, ha avuto relazioni con donne straniere. Non era il capomafia che ha sempre vissuto nei casolari dell’entroterra siciliano. Ha utilizzato la tecnologia per comunicare, non solo pizzini. Ha aperto le frontiere nuove per investire fuori dalla Sicilia».
Messina Denaro era un collante. All'interno della Sicilia e, come detto, nei rapporti con le 'ndrine calabresi, in particolare per quanto riguarda il narcotraffico. «In soldoni è proprio la gestione condivisa e armonica del traffico di droga – scrive sul "Sole 24 Ore" Roberto Galullo – che garantisce espansione, nuovi investimenti e continuo riciclaggio di denaro sporco». E ora, «assicurato alla giustizia il boss, c'è da credere che la ‘ndrangheta continui nel progressivo ruolo di supremazia nella cupola del narcotraffico mondiale e forse proprio in questo campo potrebbero registrarsi tensioni e colpi di coda». Anche Di Matteo prevede una fase di instabilità a breve termine. «Non penso che sia facile capire cosa succederà. L’arresto darà uno scossone che creerà un assestamento attorno a nuovo equilibri, non solo nella mafia siciliana».
... e le «domande giuste»
Poi ci sono i capitoli mai chiusi con la storia. Quelle pagine ingiallite che da decenni attendono di essere completate. I buchi neri, che Matteo Messina Denaro, qualora lo volesse, potrebbe colmare. La lista è lunga e articolata: dal tesoro trovato nel covo di Riina, all'agenda rossa di Paolo Borsellino; fino all'accelerazione delle stragi del 1992; i milioni (forse miliardi) di euro mai trovati dopo gli arresti di Riina prima e di Bernardo Provenzano poi; i 200 chilogrammi di esplosivo, mai trovati, destinati al giudice Di Matteo. E tanti altri.
Messina Denaro «è stato la "longa manus" di tutto questo», ha commentato - nel suo intervento a "Ottomezzo" su La7 ieri - il giornalista e scrittore Saverio Lodato, grande esperto di questioni mafiose. Lo sappiamo, i cosiddetti padrini non si sono mai pentiti. Non hanno mai parlato. Ma Lodato non si è detto pessimista. E anzi, ha parlato di una «grande occasione». E questo perché quella dell'arresto del boss di Castelvetrano è una situazione inedita. È «uno dei latitanti più giovani che vengono arrestati nel panorama che abbiamo» e - pur senza dimenticare il suo quadro di salute - «la prospettiva di farsi vent’anni di carcere con ogni probabilità non gli giova, ma - ha sottolineato Lodato - dipenderà tutto dal sapergli fare le domande giuste».
«Dovremmo avere un apparato istituzionale in grado di capire che questa è una "gallina dalle uova d'oro" se si vuole chiudere definitivamente con lo sconcio della convivenza in Italia con Cosa Nostra dopo un secolo e mezzo. Altrimenti tra altri dieci anni qualcuno ci dirà che c’è un altro che ha preso il suo posto, che lo stiamo cercando e tra altri vent’anni magari lo arresteremo»