Torture, processi iniqui e pena di morte: solo ieri (7 agosto) almeno 22 i giustiziati. Nel 2023 uccise dal regime anche donne e minori.
TEHERAN - Mentre il mondo resta con il fiato sospeso per la minacciata - e al momento congelata - risposta iraniana a Israele, "reo" di aver decapitato la leadership di Hamas, Teheran prosegue nella feroce linea repressiva all'interno del Paese.
Solo ieri, sono state eseguite - secondo quanto riporta l'agenzia degli attivisti dei diritti umani iraniani Hrana - 22 condanne a morte «per reati non politici, tra questi lo spaccio, lo stupro e l’omicidio», nel penitenziario di Ghezel Hesar a Karaj. Morti che si aggiungono ad almeno altre sei esecuzioni - avvenute nei giorni scorsi e di cui abbiamo dato notizia ieri -, legate a reati di droga e omicidi. Gli stessi attivisti di Hrana hanno poi denunciato: lo scorso anno sono stati giustiziati almeno «2 minorenni» e «21 donne»; «7 le esecuzioni in pubblico».
E nonostante gli appelli e le petizioni lanciate dalle Ong di tutto il mondo per mettere fine alla morte di Stato, nel 2023 non è stato possibile salvare la vita a 837 persone. Cifra che si riferisce alle esecuzioni eseguite lo scorso anno dal regime iraniano per «fucilazione, impiccagione e lapidazione», come denuncia Ensemble Contre la Peine de Mort (ECPM). Una scia di sangue che non si arresta nemmeno nel 2024: fin qui sono state 343 le esecuzioni, secondo gli organismi internazionali per i diritti umani.
Da incubo anche il percorso che porta al patibolo, dove si arriva dopo arresti brutali, «confessioni estorte con la tortura» e dopo «processi palesemente iniqui, per reati che non raggiungono la soglia dei "crimini più gravi"», come denuncia nel suo report Amnesty International. Dunque, per il regime è possibile decidere per la morte anche in caso di condanne per «traffico di droga, corruzione finanziaria, vandalismo, "inimicizia contro Dio" o "insulto al Profeta", corruzione». Ma a essere puniti sono anche l'adulterio, «le relazioni sessuali consensuali tra persone dello stesso sesso», l’apostasia, così come i «dissidenti», e le «minoranze etniche».
Si muore all'alba, senza un ultimo saluto - Storie di donne e di uomini le cui vite vengono troncate nel silenzio. Quello dei media e delle autorità, che talvolta non informano dell'esecuzione nemmeno le famiglie dei condannati. Come nel caso di Reza Rasaei (Rasayi), 34 anni. Ucciso all'alba del 6 agosto nella prigione di Dizelabad, a Kermanshah, dopo essere stato arrestato nel 2022. «Prigioniero politico curdo e seguace della religione Yarsan - dice di lui l'ONG "Nessuno tocchi Caino" -, arrestato durante il movimento "Donna, Vita, Libertà"». Secondo i giudici era coinvolto nell'omicidio di un funzionario dell'intelligence. Ma Reza ora non può più difendersi, se n'è andato così, nel silenzio di un ultimo saluto negato.