Lo psichiatra sulla strage di Paderno Dugnano: «Disgregazione relazionale e perdita di empatia». Con la tecnologia? «Più ansia e depressione».
MILANO/LUGANO - Ci sono storie che, per la loro unicità, superano i confini di dove avvengono e hanno la capacità di sconvolgere, per poi spingerci a capirne di più. Come è stato possibile che nella notte tra sabato e domenica, a Paderno Dugnano, una famiglia normale, con una mamma, un papà e due figli di 12 e 17 anni, sia finita al centro di un vortice di morte, in apparenza inspiegabile?
«Mi sembra stia emergendo una delle problematiche più significative della società: quella di un aumento dell'aggressività, che la pandemia ha messo in evidenza, con una perdita di punti di riferimento che può arrivare poi ad azioni come questa». Sono le parole del dr. Michele Mattia, psichiatra e psicoterapeuta, a cui chiediamo di aiutarci a capire come un 17enne, in apparenza normale, abbia potuto sterminare a coltellate la propria famiglia.
Dottore, siamo abituati a sentire storie simili dall'America ma ora accadono proprio in mezzo a noi.
«Stiamo importando anche questa modalità, figlia un po' del cambiamento della società, della perdita di punti di riferimento, della disgregazione di quello che è la microsocietà di base, cioè la famiglia, e della perdita poi delle relazioni fra le persone. Non dimentichiamoci che la pandemia nell'adolescenza ha avuto un impatto incredibile. Ne stiamo ancora pagando quella che è la coda: un ragazzo come questo, che ha diciassette anni, ha vissuto dai tredici ai quindici anni due anni senza relazioni, in questo gli adolescenti sono stati completamente amputati e hanno vissuto un disturbo dello sviluppo».
Se questo ha portato a una chiusura maggiore degli adolescenti, che dire degli adulti?
«Hanno perduto la capacità di interagire, non trovando più un linguaggio comune con gli adolescenti; probabilmente la società deve interrogarsi su questo. Non dimentichiamoci poi l'altro elemento che è l'ambiente digitale in cui noi viviamo, che ha un suo impatto significativo. Certo non è questa l'unica causa ma entra fortemente all'interno di quello che è la disgregazione delle relazioni umane. Perché se noi abbiamo un rapporto solo con lo schermo o lo smartphone e perdiamo quello con le persone questo la dice lunga sulla difficoltà nel gestire lo sviluppo delle emozioni».
Ma come si arriva a impugnare un coltello da cucina per uccidere i propri affetti più cari?
«È chiaro che è molto difficile fare ipotesi specifiche. Però non dimentichiamoci che l'atto di uccidere qualcuno è come l'atto di uccidere se stessi: il suicidio o l'omicidio fondamentalmente possono arrivare quando c'è un profondo senso di solitudine, di sofferenza. Quando ci sentiamo distaccati dalla società, possiamo uccidere noi stessi o uccidere qualcun altro. E quando uno uccide se stesso o i parenti entra in gioco "una lucida follia", come se si vivesse su due livelli il piano relazionale con la società, che funziona bene solo apparentemente. Ma il piano più profondo, quello più intimo, è completamente scisso dalla realtà: entra in una dimensione di dissociazione completa facendo spazio a un pensiero che si allontana dal rapporto con gli altri. Ed ecco che si arriva al suicidio o all'omicidio. In questo caso parliamo di un omicidio di una famiglia».
A noi impressiona proprio questo.
«Sì, esatto. Ma in realtà, quando parliamo di qualcosa che succede più profondamente in una mente che si scolla dalla realtà, è in quel momento che può succedere anche questo. Legato a un'interpretazione molto interiorizzata, che non corrisponde più ai criteri delle relazioni con le persone che mediamente vediamo, perché viene a perdersi la dimensione dell'empatia, cioè del sentire il dolore degli altri o l'emozione degli altri. Sembrerebbe proprio quello che è accaduto, perché ha utilizzato anche un'arma che non è quella della pistola, paradossalmente molto più asettica. Ma ha scelto il coltello: c'è il sangue, il dolore e le urla dell'altro. Dunque una metodologia, molto cruenta che farebbe emergere il fatto che a un certo punto in questo ragazzo ci sia stata una dissociazione emotiva molto importante, come se fosse una specie di macchina che agiva».
È una tragedia che si poteva prevedere?
«Difficile entrare nello specifico, ma i segnali premonitori sono quelli dove si comincia a parlare unicamente in un modo superficiale delle cose, dove si dà l'importanza più a quello che viene definito oggi la metrica, quindi la contabilizzazione delle cose. Come il voto a scuola: il quattro e mezzo, il cinque, il "bisogna prendere di più o di meno". Piuttosto che concentrarsi su cosa c'è all'interno delle cose, come l'impegno profuso. Diventa importante parlare anche delle emozioni in famiglia, da parte dei genitori stessi: aprirsi a una comunicazione più profonda. Perché se il ragazzo chiude alla comunicazione del proprio mondo interiore, delle proprie emozioni e parla unicamente di quello che è la parte più razionale e logica, ecco che non avremo più accesso al mondo interiore. I segni premonitori sono queste distanze emozionali e questo ragazzo sicuramente è entrato in una distanza emozionale. Elemento da non sottovalutare e a cui bisogna stare molto attenti».
Tornare quindi a condividere le proprie emozioni, senza nasconderle?
«Nelle relazioni di coppia, quando cominciano a diventare più pianificatori, più azienda famiglia, è in quell'istante che inizia l'allontanamento, perché non c'è più l'attenzione emozionale. Dovremmo invece recuperarla e non in qualche modo delegittimarla. A cominciare col darsi più tempo per la famiglia, perché spesso si arriva a casa stanchi e si dice "vabbé basta, non ho voglia, sono stanco, parliamo domani". E capire qual è la tempistica dell'ascolto: dire parlo domani poi diventa troppo tardi per cogliere queste occasioni, perché un ragazzo come questo dopo domani non parlerà più. Certo si tratta di segni sotto soglia, perché non sono mai così evidenti».
Dunque ripartire dal coinvolgimento familiare.
«Ora molte famiglie si sono disgregate e ci sono sempre meno momenti condivisi come la cena, i giochi familiari, tutto ciò che è condividere degli spazi. Che sono sempre meno mentre c'è sempre più la presenza dello schermo che è sostitutivo delle relazioni. Pensiamo a una famiglia di quattro persone dove, magari dopo aver cenato, ognuno va nella propria camera. Di fatto non c'è più la dimensione dell'attivismo in famiglia, che è un elemento importante per andare oltre quello che si vede, per creare una relazione più profonda».
Insomma, stiamo rendendo sempre più superficiali le nostre relazioni.
«Non c'è più una dimensione dell'entrare in contatto con il mondo più intimo dell'altro in modo particolare anche dell'adolescente, che comunica di più tramite i social con gli altri. Paradossalmente la genitorialità ha aumentato il controllo sociale sui figli ("dove sei? Cosa fai? Con chi sei uscito?") attraverso tutti i dispositivi che abbiamo ma ha ridotto drammaticamente quello che è l'interesse per la vita più intima dei figli».
Ma è giusto cercare un colpevole di tutto questo?
«C'è una dimensione nella quale forse la società in generale deve interrogarsi. Non c'è una responsabilità genitoriale ma è tutta la società degli adulti che ha lasciato campo libero alle nuove tecnologie. Non dimentichiamoci che da quando ci sono le nuove tecnologie c'è stato un aumento significativo dell'impatto sul disturbo d'ansia e depressivo negli adolescenti, che è raddoppiato e in alcuni casi triplicato».