Dalla notte elettorale all'insediamento di oggi: una buia parentesi nella storia della democrazia americana
Un'elezione avvelenata, le accuse di presunti brogli da parte del presidente uscente e i ricorsi fino all'escalation di Capitol Hill e del secondo impeachment contro Donald Trump. Ripercorriamo cosa è accaduto in questi ultimi due mesi e mezzo.
WASHINGTON D.C. - Gli Stati Uniti oggi voltano pagina, ma Donald Trump non sarà presente alla cerimonia d'insediamento. Un ultimo e silenzioso sfregio nei confronti del nuovo presidente, che non accadeva dal lontano 1869, a pochi anni dalla fine della Guerra di secessione, e che mostra quanto l'anima del Paese - logorata dai toni e i modi di quest'ultimo quadriennio - sia più divisa che mai.
L'inizio dell'era Biden-Harris - in una Washington blindata e con migliaia di soldati dispiegati - si vede da subito affidato l'arduo compito di restituire un'anima a una democrazia che forse mai era parsa tanto fragile come invece si è mostrata, al mondo intero, dopo quella notte senza vincitori dello scorso 3 novembre.
La notte che ha dato il "la", nella cornice della pandemia, a una delle fasi più buie della storia a stelle e strisce, incendiata a urne ancora calde da accuse di presunti brogli elettorali e proclami di vittoria da parte di Trump. Gli «abbiamo vinto» che in poche ore si sono trasformati in «Stop the count!», quando le cifre del voto per corrispondenza hanno iniziato a tingere di un blu sempre più acceso gli Stati chiave in bilico.
«Ha vinto, ma...»
Il conteggio delle schede, complice il voto postale, va per le lunghe. Solamente il 7 novembre, con la proiezione vincente in Pennsylvania, Joe Biden viene dichiarato vincitore dai network americani. Prima dalla CNN, seguita da tutti gli altri. Dalla sua Wilmington, il presidente eletto tende la mano agli "avversari". «Non ci sono più stati blu o rossi, sarò il presidente di tutti. È tempo che l'America guarisca».
Il presidente Trump però non concede la vittoria e continua a testa bassa la sua battaglia a colpi di cause nel tentativo di rovesciare l'esito delle urne. Solo una settimana dopo arriverà a sbilanciarsi, su Twitter, affermando: «Ha vinto perché l'elezione era truccata. La strada è ancora lunga». E non mentiva, considerando la pioggia di ricorsi - poi tutti respinti - mirati a chiedere riconteggi con un unico fine: bloccare le certificazioni del voto negli Stati da lui contestati e inceppare il meccanismo in vista del 14 dicembre.
Un freno alla transizione
Anche l'Amministrazione dei servizi governativi ha contribuito all'ostruzionismo nei confronti del processo di transizione, certificando solamente il 24 novembre - con oltre due settimane di ritardo - la vittoria del candidato democratico. Un primo riconoscimento, ma non una resa da parte dell'Amministrazione Trump, che ha anzi annunciato l'intenzione di «proseguire la battaglia».
Arriva quindi il turno della Corte Suprema, chiamata a pronunciarsi su di un ricorso da parte del procuratore generale dello Stato del Texas, che chiedeva - facendo leva sulle modifiche alle procedure di voto nelle ultime elezioni - di bloccare i voti del collegio elettorale in Georgia, Pennsylvania, Michigan e Wisconsin e rinviare la riunione. Niente di fatto. I nove giudici gelano Trump e il 14 dicembre il collegio conferma la vittoria di Joe Biden.
L'all-in di Trump
Pochi giorni dopo, il 18 dicembre, alcuni media oltre l'Atlantico riferiscono di un meeting alla Casa Bianca, in cui sarebbe stata evocata l'idea di ricorrere alla legge marziale, con l'obiettivo di far ripetere (sotto supervisione militare) la votazione in alcuni stati. Trump però smentisce tutto - parlando di «fake news» - e lo stesso fanno i vertici dell'esercito. I tentativi di rovesciare la volontà delle urne però vanno avanti e il presidente americano continua a muoversi in prima persona, in pressing con le autorità degli stati "rossi".
A balzare ai "disonori" della cronaca, all'alba del 2021, è la telefonata di Trump del 2 gennaio al segretario di Stato della Georgia, Brad Raffensperger. «Non c'è niente di sbagliato nel dire che avete ricalcolato. Voglio solo trovare 11'789 voti», dirà nel corso di quella chiamata. Le sue richieste saranno però respinte e l'audio di quella chiamata pubblicato dal Washington Post, un paio di giorni prima della ratifica dei voti del collegio elettorale da parte del Congresso.
Si arriva così a quel 6 gennaio 2021 che sarà raccontato nei futuri libri di storia a stelle e strisce. Da un lato le pressioni di Trump su Mike Pence per ribaltare il voto, dall'altra la spinta delle proteste da parte dei supporter del presidente, che già verso la fine di dicembre si erano fatte sempre più violente.
L'assalto al Campidoglio e il secondo impeachment
Migliaia di persone si erano riunite in Freedom Plaza già il giorno precedente. Nel primo pomeriggio del 6 gennaio, la "Save America March" si è trasformata in una rivolta, culminata poi nell'invasione del Campidoglio da parte dei sostenitori di Trump. Una delle giornate più nere di sempre nella storia della, cosiddetta, più grande democrazia del mondo, conclusasi con cinque morti, una dozzina di feriti, una cinquantina di arresti, furti e vandalismi.
I gravissimi fatti di Capitol Hill hanno spianato la strada ad una seconda richiesta di impeachment del presidente da parte dei Democratici, che lo hanno accusato di incitamento all'insurrezione. Il vicepresidente Pence decide di non invocare il 25esimo emendamento (che avrebbe rimosso Trump dalla carica) e la macchina dell'impeachment va avanti.
La mozione, presentata alla Camera l'11 gennaio, viene approvata (con 232 voti contro 197 voti) il 13 gennaio e Donald Trump diventa il primo presidente messo in stato di accusa per due volte. Un via libera "bipartisan", sostenuto anche da 10 deputati repubblicani. La palla passa così al Senato, che però è tornato solo ieri a riunirsi. E il capogruppo della maggioranza alla Camera alta, il repubblicano Mitch McConnell, aveva immediatamente escluso la possibilità di un processo «equo e serio» prima dell'insediamento di Biden, sottolineando come la transizione fosse la priorità del momento.
Gli ultimi giorni: Trump sempre più solo
Con la complicità di una discussa - soprattutto nelle tempistiche - espulsione dai suoi canali social (con Twitter in prima fila), gli ultimi giorni del mandato di Trump trascorrono in un insolito silenzio, con il presidente che, dopo i fatti del 6 gennaio e il "sì" della Camera al secondo impeachment, vede alcuni suoi fidati membri di gabinetto abbandonare la nave, mentre la futura amministrazione annuncia già un maxi piano da 1900 miliardi di dollari contro la pandemia di coronavirus e l'intenzione di firmare i primi decreti già nella giornata di oggi.
Sempre più solo e privato del suo "megafono" preferito, Trump rivolge uno dei suoi ultimi messaggi a quella fetta di elettori che continua a sostenerlo e chiede di astenersi da qualsiasi manifestazione aggressiva. «Non ci deve essere nessuna violenza, nessuna violazione della legge e nessun atto di vandalismo di alcun tipo. Non è questo ciò che io sostengo, e non è ciò che l'America rappresenta». Parole distensive mirate a disinnescare in anticipo quei possibili disordini che tanto preoccupano; come dimostrato anche dai quasi 25mila militari dispiegati oggi nel Distretto di Columbia.
Giunto al capolinea e dopo il caos di Capitol Hill, il presidente uscente concede infine pubblicamente la vittoria, assicurando una transizione di potere ordinata e lasciando i cocci dell'anima americana nelle mani del suo successore.