Il toccante ritratto delle donne svizzere di origini africane di “Je Suis Noires” arriva oggi nelle sale ticinesi, ed è davvero da vedere
LUGANO - Una vita da album fotografico, con un marito bianco e i capelli crespi – con cui si litiga da una vita – nascosti sotto a una parrucca. Poi, a un certo punto, la rottura con tutto e tutti e la ricerca del sé più autentico, in un viaggio a senso unico con destinazione ignota.
È questo il percorso della giornalista svizzera di origini congolesi Rachel M’Bon, protagonista – assieme ad altre svizzere figlie di africani – del documentario “Je suis noires” nelle sale ticinesi da questa sera.
Il lavoro a quattro mani di M'Bon e della regista messicana Juliana Fanjul prova a trovare un leitmotiv nel travaglio quotidiano di un campione delle migliaia di donne di colore che si trovano a vivere in Svizzera. Un Paese che dovrebbe essere campione di democrazia e tolleranza ma per quanto riguarda l'integrazione ha ancora molto da imparare.
Con una popolazione prevalentemente bianca e una mentalità ben poco cosmopolita, la Confederazione deve fare i conti ancora oggi con il suo razzismo sistemico, a volte naif, a volte consapevole. «Come posso amarmi se non sono bianca», si chiede Rachel il cui senso d'inadeguatezza e di cesura trova riscontro nelle altre intervistate che in Svizzera si sentono «troppo nere» mentre quando tornano in Africa, a visitare i parenti, si sentono «troppo bianche».
Uno dei primi è proprio il corpo: «a scuola mi dicevano hai la pelle color della cacca», conferma una giovane studentessa intervistata, «i miei capelli sono sempre stati la mia prigione», ribadisce invece una dirigente, «è triste ammetterlo, ma mi è capitato di desiderare di essere bianca».
“Je suis noires” è un mosaico inedito di storie e testimonianze forti e vibranti, non vuole ambisce a trovare una soluzione a un problema che ha radici profonde ma, attraverso il racconto, invita alla riflessione e alla comprensione. E secondo noi è assolutamente da non perdere.