Sono le parole dell'ex magistrato antimafia Pietro Grasso. E la giornalista indipendente Madeleine Rossi ci parla della mafia nel nostro paese: «Si può fare di più»
LUGANO - «Per parlare della mafia italiana in Svizzera ci vorrebbe un libro di cinquecento pagine, lo scriverò l’anno prossimo». È quanto ci dice la giornalista indipendente Madeleine Rossi, autrice di un recente rapporto sul fenomeno che nel nostro paese «è più diffuso di quanto si voglia credere». Certo, è difficile portare degli esempi concreti. In primis c’è però l’arresto, negli scorsi anni, dei membri di una cellula della ‘Ndrangheta a Frauenfeld, nel Canton Turgovia. E in Ticino? «Rispetto al resto della Svizzera, la presenza della mafia si percepisce in ogni angolo».
In che senso?
«Si ha la sensazione che ci sia qualcosa che non va, ma non si hanno le prove. Il fenomeno è comunque presente nella ristorazione. Si pensi per esempio al caso dei mafiosi che importavano vino. Poi ci sono bar che sono sempre vuoti ma che vanno comunque avanti… la sensazione è che ci sia qualcosa di strano».
È mai stata in questi bar?
«Ci sono stata… sono bar alla moda, ma non c’è mai nessuno o poche persone. Qualcosa non torna. Non ho però prove concrete».
E ritiene che in Svizzera il problema sia più importante di quanto si creda…
«Me l’aveva fatto notare l’ex procuratore antimafia Pietro Grasso, che mi diceva: “In Svizzera siete ciechi, dovete stare attenti, dovete alzare il livello di guardia”».
Da qui il suo rapporto sulla mafia italiana in Svizzera.
«È un’idea nata all’epoca in cui lavoravo con la Fondazione Caponnetto a Firenze, che pubblica report analoghi per l’Italia. Per la Svizzera mi sono appoggiata a un lavoro di master, che era arrivato alla conclusione che contro il fenomeno si potrebbe fare di più».
E la politica cosa fa?
«Spulciando gli atti parlamentari, si constata che ci sono alcuni (pochi) deputati, soprattutto ticinesi, che si interessano alla questione. Ma altri reagiscono soltanto quando succede qualcosa nel proprio cantone. È il caso dei latitanti presi in Vallese: soltanto in quel momento era stato interpellato il Consiglio federale».
Secondo lei, i cittadini invece come percepiscono il fenomeno?
«C’è chi ti ride in faccia, dicendo “Ma dai, la mafia alle nostre latitudini...” Se nella popolazione si rileva una scarsa sensibilità, in genere è dovuto anche al fatto che non se ne parla abbastanza. Le autorità svolgono un lavoro importante, ma purtroppo non viene pubblicizzato. Non è come in Italia, dove i magistrati antimafia vanno in tv per parlare del lavoro svolto».
Come mai non si fa di più?
«Forse anche a livello federale non si valutano tutti i rischi. Oppure si pensa che la Svizzera sia protetta a sufficienza. Però quando se ne parla con gli addetti ai lavori, loro dicono che avrebbero bisogno di più forze. Si potrebbero almeno prevedere delle formazioni annuali a cui partecipano gli ufficiali della polizia cantonale di tutti i cantoni. Basterebbe poco per alzare il livello di guardia e rafforzare le competenze».
Un cittadino come può invece agire per contrastare il fenomeno?
«Nelle comunità italiane c’è molta omertà. È usuale che quando accade qualcosa, gli altri vogliano vivere in pace. Ma bisogna parlarne per permettere di superare lo stereotipo secondo cui l’italiano è un mafioso. Per i cittadini non italiani, il consiglio è di smetterla di non prendere sul serio la questione della mafia».
Lei ha dunque scritto un rapporto di cento pagine sulla mafia in Svizzera. Qual è stata la principale difficoltà?
«Soprattutto il fatto che in Svizzera le fonti ufficiali sono tutte anonimizzate: nelle banche dati si trovano tutte le sentenze, ma mai i nomi. In Italia, invece, la documentazione contiene vita, morte e miracoli di chiunque. Allora è stato necessario incrociare tutti i dati. Per compilare un elenco di una cinquantina di persone legate alla mafia, ci sono voluti quattro giorni soltanto per verificare nomi e cognomi».