Secondo l'ex procuratrice Rosa Cappa, in Svizzera e in Ticino si potrebbe fare di più contro la 'ndrangheta
«I clan si radicano sul territorio» avverte l'avvocato. «Per contrastarli serve una formazione specifica e maggiore collaborazione con la Procura federale»
LUGANO - «Non si cessa mai di essere preti, né mafiosi» diceva Giovanni Falcone. Ma quando arrivano in Ticino i mafiosi sembrano diventare preti, e rifarsi una "verginità" da cittadini modello. Secondo l'avvocato Rosa Cappa «le autorità dovrebbero aumentare la sorveglianza sulle persone che hanno una certa storia» anche in assenza di condanne. L'ex procuratrice federale è del parere di Falcone. «Chi appartiene a un ambiente mafioso, non cambia abitudini passando il confine».
In una recente intervista al Blick, Cappa ha rilanciato l'allarme sulla "mafia di paese" radicata anche in Svizzera. La cronaca le dà ragione: a novembre su richiesta della Procura antimafia di Firenze a Lugano sono state arrestate due persone - il gerente di un bar e un cameriere - accusate di riciclaggio e traffico di stupefacenti. A gennaio, una serie di confische ordinate dal Tribunale di Reggio Calabria, ha gettato la luce sugli affari ticinesi di un imprenditore, attivo nel settore delle slot machine.
«Si tratta di casi molto eloquenti. Il gioco d'azzardo e la ristorazione sono settori notoriamente prediletti dalle cosche. La 'ndrangheta da tempo non si limita a portare soldi nelle banche svizzere, ma è attiva sul territorio e di ciò esistono diversi segnali» spiega l'ex magistrato a tio.ch/20minuti. «Il punto è che la Procura federale è poco proattiva nelle indagini e agisce unicamente su input delle rogatorie italiane».
Negozi e ristoranti che sorgono dal nulla, perennemente vuoti. Concessionarie di auto di lusso sperdute tra le campagne del Luganese. Lavoro nero, concorrenza sleale. Sono diverse le "spie" sul territorio che, secondo Cappa, «dovrebbero suscitare l'attenzione delle autorità federali e cantonali e potrebbero dar luogo a indagini» solo che «le forze dell'ordine devono essere addestrate e sensibilizzate a riconoscere queste spie, cosa che al momento non avviene».
La Polizia cantonale avrebbe «bisogno di maggiori attrezzature tecnologiche, ma soprattutto di più formazione specifica» aggiunge Cappa. «I nostri poliziotti sanno cos'è la mafia, come funziona? Sanno riconoscere se dietro a un reato finanziario o a uno spaccio di stupefacenti c'è qualcos'altro?» chiede l'ex procuratrice. «Esistono dei reati spia, come quelli relativi alle commesse pubbliche o alle leggi sul lavoro. Ma oltre a questo esistono i nomi e le persone, con le loro storie che non devono costituire un pregiudizio, ma un elemento d'attenzione».
Il caso del 59enne prestanome dei clan di Gioia Tauro, che ha ottenuto un permesso G dopo aver ricorso al Tram contro una decisione negativa del Consiglio di Stato, è un esempio tipico secondo Cappa. «Si tratta di un individuo con una lunga e accertata storia di vicinanza alla 'ndrangheta» sottolinea l'avvocato. «Ora è evidente che l'Ufficio della Migrazione non può fare da poliziotto. Ma se non è possibile tenere una persona simile fuori dal Ticino, si può tuttavia tenerla sotto controllo».
Il problema delle indagini anti-mafia è che «sono difficili e costose e non sempre portano a sentenze di condanna» come dimostra il caso recente del fiduciario di Chiasso Oliver Camponovo, prosciolto dalle accuse di riciclaggio. «Spero che decisioni simili non abbiano un effetto scoraggiante sugli inquirenti, perché le indagini sono importantissime» conclude l'ex procuratrice. «La sentenza del Tribunale federale, ricorda, ha comunque confermato l'appartenenza alla 'ndrangheta del cliente del fiduciario, Franco Longo, e il fatto che quest'ultimo operava in Ticino per conto dei clan».
Rosa Cappa per anni si è occupata di crimine organizzato presso l'antenna luganese dell'Mpc. E proprio sul Ministero pubblico della Confederazione si concentra la riflessione dell'ex magistrato. «Ho idea che la Procura federale non coinvolga e non stimoli a sufficienza le polizie locali, che conoscono davvero il territorio e potrebbero fare la differenza. Finché prevale questo atteggiamento timido, continueremo a sentire intercettazioni in cui gli 'ndranghetisti dicono, come è successo di recente nell’ambito di un’indagine della Procura antimafia di Milano, che è meglio stare in Svizzera che in Italia».