Le frasi celebri del manager in maglione
LUGANO - Qui di seguito una serie di frasi celebri di Sergio Marchionne.
«Ai miei collaboratori, al gruppo di ragazzi che sta rilanciando la Fiat, raccomando sempre di non seguire linee prevedibili, perché al traguardo della prevedibilità arriveranno prevedibilmente anche i concorrenti. E magari arriveranno prima di noi».
«Non possiamo mai dire: le cose vanno bene. Semmai: le cose non vanno male. Dobbiamo essere paranoici. Il percorso è difficilissimo. Siamo dei sopravvissuti e l'onore dei sopravvissuti è sopravvivere».
«Mi sveglio di solito alle cinque del mattino e per un paio d'ore leggo i giornali. Prima il Financial Times e il Wall Street Journal, poi quelli italiani: Repubblica, Corriere, il Sole, la Stampa. I quotidiani italiani hanno articoli bellissimi, straordinari pezzi culturali, ma resto sempre perplesso sulle troppe pagine dedicate alla politica, soprattutto a un certo tipo di politica».
«La leadership non è anarchia. In una grande azienda chi comanda è solo. La collective guilt, la responsabilità condivisa, non esiste. Io mi sento molte volte solo».
«Dei miei collaboratori faccio valutazioni continue, ogni giorno do loro i voti».
«Trovavo Gianni Agnelli una persona affascinante. Mi interessava soprattutto il suo contorno, ciò che riusciva a muovere con una parola, un gesto».
«Ho cercato di organizzare il caos. Ho visitato la baracca, i settori, le fabbriche. Ho scelto un gruppo di leader e ho cercato con loro di ribaltare gli obiettivi per il 2007. Allora non pensavo di poter arrivare al livello dei migliori concorrenti, mi sarei accontentato della metà classifica. Nessuno ci credeva, pensavano che avessi fumato qualcosa di strano. Oggi posso dire che non mi ha mai sfiorato la tentazione di rinunciare, piuttosto il pensiero che forse non avrei dovuto accettare. Ma era la Fiat, era un'istituzione del paese in cui sono cresciuto».
«Ho grande rispetto per gli operai e ho sempre pensato che le tute blu quasi sempre scontino, senza avere responsabilità, le conseguenze degli errori compiuti dai colletti bianchi».
«Una volta ero affezionato ai numeri dispari. Uno, tre, cinque... Come Montezemolo. Arrivato alla Fiat ho cambiato idea, ho deciso di privilegiare i pari. Mi sembrano più adatti al gruppo. Confortano».
«Se ho un metodo è un metodo che si ispira a una flessibilità bestiale con una sola caratteristica destinata alla concorrenza: essere disegnato per rispondere alle esigenze del mercato. Se viene meno a questa regola è un metodo che non vale un tubo».
«Non mi frega assolutamente nulla del potere. Rispetto i ruoli, il potere a livello istituzionale, quello sì. È un insegnamento di mio padre, che era maresciallo dei carabinieri. Il mio è un potere industriale che cerco di esercitare con cura, rimanendo fedele agli obblighi morali. Nulla di ciò che faccio è mosso da interessi personali. Incontro politici soltanto per lavoro, non frequento salotti torinesi, milanesi, romani».
«Non credo assolutamente alla regola che più sono giovani più sono bravi. Anzi. Sono per il riconoscimento delle capacità delle persone, che abbiano trenta o sessant'anni».
«Un leader Fiat per me deve avere la capacità di accettare il cambiamento, di gestire le persone che dipendono da lui e di convertire i ventimila capi intermedi del gruppo».
«Abbiamo investito nel mestiere con una disciplina quasi calvinista, abbiamo restituito la dignità del lavoro alla gente degli stabilimenti che erano stati quasi completamente abbandonati. Per un mese sono andato ogni domenica a Mirafiori. Era come una casa dimenticata dalla sua famiglia, i costumi da bagno sbattuti assieme agli scarponi da sci, i libri in terra, il cibo con la muffa nel frigorifero».
«Siamo usciti dall'acqua che ci stava per affogare, ma dobbiamo conservare la paura di ricaderci. Dobbiamo temere l'acqua anche quando non c'è».
«Se continuiamo a vivere di soli diritti, di diritti moriremo».
«Ho detto agli americani: vi vendo l'auto o mi pagate per non prenderla. Ho capito che Gm non era pronta a gestire la Fiat. Non voleva contaminazioni che l'avrebbero fatta morire. Quella dei preliminari è stata la fase più complicata, una partita a poker, una lunga e logorante battaglia di posizione, tra advisor, avvocati, analisti. Loro indagavano su di me e io su di loro. Sapevamo gli uni dell'altro persino che cosa mangiavamo a pranzo e cena».
«L'Italia è un paese che deve imparare a volersi bene, deve riconquistare un senso di nazione».
«Esiste un mondo in cui le persone non lasciano che le cose accadano. Le fanno accadere. Non dimenticano i propri sogni nel cassetto, li tengono stretti in pugno. Si gettano nella mischia, assaporano il rischio, lasciano la propria impronta. È un mondo in cui ogni nuovo giorno e ogni nuova sfida regalano l"opportunità di creare un futuro migliore. Chi abita in quel luogo, non vive mai lo stesso giorno due volte, perché sa che è sempre possibile migliorare qualcosa.
Le persone, là, sentono di appartenere a quel mondo eccezionale almeno quanto esso appartiene loro. Lo portano in vita con il loro lavoro, lo modellano con il loro talento. Vi imprimono, in modo indelebile, i propri valori. Forse non sarà un mondo perfetto e di sicuro non è facile. Nessuno sta seduto in disparte e il ritmo può essere frenetico, perché questa gente è appassionata - intensamente appassionata - a quello che fa. Chi sceglie di abitare là è perché crede che assumersi delle responsabilità dia un significato più profondo al proprio lavoro e alla propria vita».