Nei mesi della pandemia i ricoveri per arresto cardiaco negli Stati Uniti sono diminuiti
L'analisi, effettuata dai medici del Providence Heart Institute e pubblicata sulla rivista Jama Caridology, prende in considerazione oltre 15mila infarti.
NEW YORK - La mortalità per l'infarto più grave - il cosiddetto Stemi (Infarto miocardico con elevazione del segmento ST) -, per sopravvivere al quale la tempestività dei soccorsi è cruciale, è raddoppiata negli Stati Uniti durante l'emergenza coronavirus.
È quanto emerge da una vasta analisi condotta a partire da febbraio e pubblicata sulla rivista Jama Cardiology. L'indagine si basa sui dati di oltre 15 mila infarti ed è stata condotta da medici del Providence Heart Institute.
Ricoveri e paura - Già a partire dal mese di febbraio si è assistito a un crollo dei ricoveri per infarto, segno che la paura del coronavirus ha bloccato molte persone che, pur manifestando i sintomi chiari di un arresto cardiaco, hanno evitato di recarsi in ospedale. Non solo. Dall'analisi è pure emerso che i ricoveri per infarto sono durati in media meno giorni e i pazienti dimessi sono stati inviati a casa piuttosto che in centri di riabilitazione ad hoc come avviene di solito.
Il fattore tempo - Inoltre per l'infarto più grave la mortalità è raddoppiata anche se non vi è stato alcun cambiamento nell'assistenza fornita ai pazienti; l'impennata dei decessi si spiega con un ritardo nel cercare soccorso (nell'infarto Stemi la tempestività dei soccorsi è cruciale) o con l'intasamento dei pronto soccorsi a causa dell'emergenza Covid.
L'effetto smog? - Oltre alla paura che ha reso i pazienti riluttanti a cercare soccorso, concludono i cardiologi, non è da escludersi anche un reale calo dei casi di arresto cardiaco legato a una riduzione dell'inquinamento durante il lockdown, essendo lo smog un fattore di rischio importante per eventi cardiovascolari come infarto e ictus.