Il furto in uno dei laboratori di ricerca di Chernobyl ha "innescato" la domanda. E qualche ipotesi è stata formulata.
PRYP"JAT' - Come un latitante creduto morto che improvvisamente, dopo anni, ricompare dal nulla. Lo spauracchio nucleare della centrale di Chernobyl si è rianimato con l'inizio dell'invasione russa in Ucraina, reclamando prime pagine e titoloni e presentandosi nella veste meno polverosa di stretta attualità anche allo sguardo delle generazioni più giovani, quelle nate quando l'eco della caduta del muro si era ormai esaurito.
Ci sono stati i combattimenti all'inizio del conflitto nei pressi della centrale. I danni alla linea elettrica nelle settimane successive che facevano temere una dispersione della radioattività nell'aria. E ancora la presenza dei militari russi, che in quei boschi che fanno da cornice al sito ci hanno passato giorni, scavando pure trincee. E infine il furto di 133 oggetti radioattivi - per un'attività pari a 7 milioni di becquerel, ossia paragonabile a circa 700 chilogrammi di rifiuti radioattivi con radiazioni gamma e beta - da uno dei laboratori di ricerca, denunciato domenica dall'Agenzia statale ucraina incaricata della gestione della Zona d'esclusione. E proprio attorno a questi ultimi è sorta inevitabilmente una domanda: che uso intende farne Mosca?
Un pericoloso «souvenir»
Premettiamo, a scanso di equivoci, che non conosciamo quale sia la risposta. Ma le ipotesi non mancano, a partire da quella - tra il sarcastico e il canzonatorio - che è stata formulata proprio dalla stessa agenzia che ha portato alla luce il fatto. In un lunghissimo post su Facebook si legge che gli oggetti in questione sarebbero stati rubati come semplici «souvenir». «Lo consideriamo lo scenario più probabile». Dei souvenir, si apprende proseguendo nella lettura, che possono assicurare a chi li possiede ustioni da radiazioni e l'insorgere della sindrome da radiazione acuta nel giro di un paio di settimane. Con tutti i processi irreversibili che ne derivano.
La "prova" che Putin sta cercando
Ben più concreta e interessante è invece la lettura dei fatti che viene proposta dalla fotografa italiana Francesca Gorzanelli, autrice del blog e della pagina social "Diario di un viaggio a Chernobyl". E anche lei in prima persona si pone la domanda. «Cosa ne hanno fatto di quel materiale» che è «estremamente pericoloso» e che serviva in primis al «monitoraggio della situazione nella Zona di esclusione»? E una possibile risposta Gorzanelli la propone, spiegando che per il presidente russo Putin si tratta di «un obiettivo di primaria importanza in quanto doveva essere la prova provata che l'Ucraina produce armi nucleari e chimiche in combutta con la Nato».
Bombe sporche? «No, Mosca è già attrezzata»
E se l'intenzione di Mosca fosse invece quella di recuperare il materiale radioattivo per poi "riciclarlo" nella produzione di cosiddette "bombe sporche"? È emersa pure questa tra ipotesi e preoccupazioni. Ma è stata "disinnescata" dall'esperto Mario Scaramella, professore presso l'Università degli Studi di Bergamo che - interpellato dall'agenzia di stampa italiana Adnkronos - ha definito il materiale sottratto dal laboratorio «più una collezione per uso forense di sostanze ed elementi rari che un mezzo per attentati». Il furto «non credo possa suggerire un immediato utilizzo, non vedo questo pericolo perché non si tratta di un gruppo di terroristi o di improvvisati mercenari». E aggiunge che se «i russi dovessero arrivare a utilizzare armi non convenzionali queste sarebbero prese dall’arsenale standard, che purtroppo già prevede piccole atomiche tattiche».