di Franco Cavalli
La pandemia di Coronavirus ci occuperà ancora per molto tempo: non solo perché temo che in autunno ci sarà una seconda ondata, ma soprattutto perché, passata l’emergenza sanitaria, avremo sicuramente una crisi economica che arrischia di essere, se possibile, ancora peggiore. E l’esplosione della disoccupazione e del lavoro ridotto sono chiari segnali: basti pensare ai 6 milioni di disoccupati registrati in soli dieci giorni negli Stati Uniti, dove, per fare un paragone, al culmine della tragica recessione del 1929 si arrivò a 12 milioni.
Ma già sin d’ora questa pandemia sta mettendo a nudo, anche qui da noi, una serie di problemi strutturali nel settore della salute, che erano stati in gran parte volutamente trascurati nel recente passato. Tralascio per intanto i risparmi effettuati nel settore della medicina d’urgenza e in quello della preparazione alle pandemie, che diventeranno sempre più numerose secondo quanto l’Organizzazione Mondiale della Sanità sta dicendo da parecchio tempo. Mi limito per intanto a discutere quanto sarebbe capitato se Italia, Francia e Germania avessero precettato, ciò che avrebbero potuto fare legalmente senza problemi, i loro medici e le loro infermiere che lavorano in Svizzera. In Ticino, ma non solo, sarebbe stato un disastro incredibile. Parlerò un’altra volta più in dettaglio dei medici: per un meschino calcolo economico, si preferisce difatti farli venire dall’estero già laureati, in quanto la formazione di un medico costa allo stato quasi un milione.
Questa volta vi parlo delle infermiere, diventate di colpo quasi delle eroine, dopo che per anni il mondo politico le aveva snobbate. L’Associazione Svizzera delle Infermiere (ASI) da anni lancia un allarme dopo l’altro, indicando che la mancanza cronica di personale infermieristico diventerà ben presto insopportabile. Alcune stime vanno sino a pronosticare la mancanza di 30'000 infermiere entro il 2030, non da ultimo perché il bacino del personale frontaliero non sarà sempre illimitato. Attualmente in Ticino, anche se negli ultimi anni la percentuale di infermiere frontaliere nell’EOC è leggermente diminuita, quasi il 50% del fabbisogno è coperto da personale frontaliero, presente in forza soprattutto nelle strutture private e nelle case anziani. Cifre simili le abbiamo per l’arco lemanico e per Basilea, appena più basse per gran parte degli altri ospedali svizzeri. Un’iniziativa parlamentare che voleva obbligare la Confederazione a finanziare la formazione delle infermiere, oggi di competenza solo cantonale, ma anche a contribuire a migliorare le loro condizioni di lavoro, un paio di anni fa cadde in Parlamento, bocciata dalla maggioranza di destra, orchestrata in quel caso da Ignazio Cassis. Per questa ragione l’ASI lanciò un’iniziativa popolare “Per delle cure infermieristiche forti”, che raccolse in un batter d’occhio 125'000 firme e che attualmente è in discussione al Parlamento. Per capirne il contenuto bisogna rendersi conto che il problema è duplice: è sì vero che si formano troppo poche infermiere, ma più importante ancora è il fatto che nel giro di 13-14 anni la metà di loro abbandona la professione, a causa dell’intensificazione continua registrata negli ultimi anni dello stress lavorativo, a fronte di salari rimasti parecchio modesti.
L’ultima disgraziata revisione della LAMal ha difatti ancora peggiorato la situazione, sia a causa dell’introduzione del finanziamento delle cliniche private, ma soprattutto per il pagamento forfettario delle spese ospedaliere (i famigerati DRGs). Questi ultimi hanno portato a una diminuzione drastica della degenza media dei pazienti, che le strutture sanitarie compensano aumentando di molto il numero dei pazienti trattati, ciò che moltiplica lo stress lavorativo per il personale infermieristico. D’altra parte, il finanziamento delle cliniche private ha permesso a queste una vera e propria “campagna d’acquisto di medici” (e in questo senso il Ticino è un caso esemplare), ciò che ha portato tendenzialmente gli ospedali pubblici ad aumentare la spesa globale per i medici (oltre a quella dell’amministrazione) e a plafonare in compenso, quando non a diminuire, quanto spendono per i salari del settore infermieristico. La succitata iniziativa popolare dell’ASI richiede un investimento della Confederazione per aumentare la formazione, per migliorare i salari, nonché una generalizzazione dei contratti collettivi e la fissazione di un numero minimo delle infermiere che dovrebbero essere presenti sui vari reparti. Tutto ciò dovrebbe permettere di aumentare di molto il numero delle “nostre infermiere”: nonostante ciò il leghista Quadri l’ha bocciata accusandola d’essere una semplice “iniziativa sindacale”. Contro la volontà dell’UDC, il Consiglio Nazionale ha quindi accettato un controprogetto, che riprende almeno in parte le richieste dell’iniziativa. In febbraio la commissione sanitaria degli Stati ha ulteriormente indebolito il controprogetto: data l’interruzione dell’attività parlamentare, non sappiamo quando ci sarà il dibattito nel plenum degli Stati. C’è da sperare che Marco Chiesa, grande fautore dell’iniziativa “Prima i nostri”, si impegni per far accettare l’iniziativa o almeno un controprogetto migliorato, contrariamente a quanto vuole il suo partito. Le infermiere se l’aspettano: gli applausi e i ringraziamenti per la loro esemplare ed estenuante dedizione agli ammalati di Coronavirus non bastano. Ci vogliono fatti, risorse e cambiamenti strutturali