Giulia Petralli e Cristina Gardenghi, coordinatrici Giovani verdi
Rispondiamo qui a un’opinione di Diego Baratti recentemente pubblicata, che fornisce una lettura del fenomeno della disoccupazione giovanile inesatta e fuorviante. Secondo il Vicepresidente dei Giovani UDC, la causa principale della disoccupazione giovanile è da attribuire alla libera circolazione delle persone.
A nostro avviso, la disoccupazione - poco importa se giovanile o adulta - è un elemento costitutivo dell’economia di mercato, che si è accentuato quando si è posto al centro dei processi economici non i concetti di dignità, condivisione e retribuzione, bensì l’incessante ricerca del mero profitto. il fenomeno della disoccupazione può essere visto, in alcuni casi, come un meccanismo che torchia i salari e fa esplodere i profitti aziendali.
Il problema per le giovani e i giovani ticinesi risiede principalmente nella scarsa offerta di occasioni (che per alcune/i può subire repentine estensioni in funzione delle conoscenze partitiche e/o famigliari), nella bassa qualità d’impiego (salariale e non) e in contratti brevi, precari o inesistenti. Lo stesso Baratti ne fornisce degli esempi più che esaustivi. Attribuire la genesi di queste problematiche alla sola libera circolazione delle persone ci sembra semplicistico, illusorio e incorretto.
Esiste innanzitutto un mal impiego dei capitali, che non finanziano la ricerca, l’innovazione tecnologica e la transizione verso un’economia sostenibile, ma confluiscono nella speculazione finanziaria, che permette alle aziende di arricchirsi senza investire nella produzione reale, nel territorio e in nuovi impieghi (quest’ultimi sempre più rimpiazzati da robot). Urge dunque incentivare lo spostamento di capitali dall'economia fittizia a quella reale, tassando per esempio in modo più elevato le rendite finanziarie.
La logica della massimizzazione del profitto considera la retribuzione della manodopera un costo da ottimizzare. Ciò apre le porte a una spietata lotta al ribasso dei salari, a maggior ragione in luoghi come il Ticino, in cui stipendi infimi sono possibili a causa della concorrenza con i redditi offerti nei paesi confinanti. I frontalieri che ogni giorno varcano il confine ticinese per andare al lavoro non hanno altra colpa che quella di massimizzare il bilancio personale, che vede sui piatti della bilancia un salario svizzero (o quel che ne resta) vs. un salario italiano nettamente inferiore. Al contempo contribuendo a coprire l’annosa (e vergognosa) mancanza di manodopera indigena in settori chiave dell’economia e della sanità.
Chi ha colpa sono le aziende che orchestrano e alimentano il sadico “fight club” della pressione salariale, creando condizioni indecenti per chi vive in Ticino. Complice di questo scempio è una certa politica attira aziende in stile Kering, poco risoluta nel regolarizzare il mercato del lavoro ticinese. Quindi piuttosto che chiudere le frontiere (e farci mancare preziosa forza lavoro in ambiti importanti dell’economia e società), dovremmo darci da fare per mettere in atto veri strumenti di salvaguardia del mercato del lavoro ticinese, come un salario minimo dignitoso o l’ottenimento di uno statuto speciale per il Ticino.
D’altronde, piuttosto che “fare assistenza”, non è meglio che lo Stato paghi i giovani impegnandoli in lavori socialmente utili, dando loro anche la possibilità di farsi una esperienza lavorativa che accresca il loro bagaglio formativo e investendo in grandi progetti pubblici orientati verso il futuro
che ci aspetta? I giovani hanno voglia di lavorare e di rendersi utili. Lo Stato, ma anche le imprese, non dovrebbero risparmiare e perdere l’occasione di coinvolgerli in un progetto duraturo e lungimirante verso una economia sostenibile che metta al centro la qualità di vita.