Cristina Maderni, Vice-presidente Camera di Commercio, Deputata PLR in Gran Consiglio
Sono tre semplici domande quelle che noi tutti dovremmo porci votando il 15 maggio sul decreto legislativo “per il pareggio del conto economico del Cantone entro il 31 dicembre 2025, con misure di contenimento della spesa e senza riversamento di oneri sui Comuni”. È giusto risanare le finanze pubbliche cercando di spendere con più oculatezza i soldi dei contribuenti, invece di gravare questi ultimi con aumenti di tasse e imposte? È giusto bloccare la perversa spirale per cui da anni le uscite dello Stato sono quasi sempre superiori alle sue entrate? È giusto che il Cantone abbia i conti in ordine, non spendendo più di quanto incassa, avendo così le risorse necessarie per sostenere le sfide da cui dipende la crescita economica e sociale del Paese?
Noi pensiamo che sia giusto e possibile un maggiore senso di responsabilità su come usare i soldi dei cittadini e delle imprese, che sia anche moralmente doveroso per non gravare i nostri figli e nipoti con un debito ingente non fatto da loro, né per loro.
La sinistra, dopo aver promosso il referendum, ha scatenato una campagna di terrorismo psicologico contro questo decreto, agitando lo spauracchio di una “macelleria sociale”: meno impiegati pubblici e meno servizi per i cittadini, meno personale e meno cure negli ospedali, nelle case per anziani e per l’assistenza a domicilio, meno dipendenti negli asili nido e nei centri extrascolastici, trasporti pubblici più cari e meno collegamenti con le zone periferiche, meno fondi per l’Usi e la Supsi. Niente di tutto questo è vero! Nessun taglio alle prestazioni e agli aiuti di chi ha bisogno avrà luogo! “Contenere” la spesa non significa tagliare, ma solo rallentarne una crescita che è ormai diventata sempre più veloce e troppo sbilanciata rispetto alle entrate.
Nonostante che le manovre di rientro degli anni scorsi siano riuscite a riportare in equilibrio i conti pre-pandemici dello Stato, per le finanze cantonali permane una situazione di estrema fragilità. La spesa per i dipendenti pubblici, per il funzionamento della macchina dello Stato e per i sussidi (le tre voci su cui si dovrebbe intervenire con misure di contenimento) in dieci anni è aumentata di oltre il 30% (+709 milioni). Mentre nel 2020 i contribuenti ticinesi hanno sborsato 1156 milioni di imposte, ossia 364 milioni in più di quanto pagavano nel 2010, a cui si aggiungono altri 63 milioni in più di tasse e balzelli vari rispetto ad un decennio fa. Il risultato è che oggi il Ticino è in fondo alla classifica intercantonale sulla competitività fiscale e ai primi posti invece per le finanze traballanti.
L’impatto della pandemia sui conti pubblici ha messo in luce questa condizione di squilibrio strutturale, che sarà ulteriormente acuita dal rallentamento economico causato dal rincaro dei prezzi dell’energia e delle materie prime. In una fase così difficile come quella attuale, pensare di risanare le finanze, non contenendo la spesa, ma aumentando le imposte per cittadini e aziende, come vorrebbe la sinistra, significherebbe spingere il Paese verso un declino senza ritorno.