Matteo Quadranti, gran consigliere Plr
Le società si basano su storie che passano di bocca in bocca penetrando la psiche dei singoli, eccitandone le emozioni e plasmandone la visione del mondo. Se la sera potessimo ascoltare le voci di questo mondo sentiremmo, in tutte le lingue, adulti che raccontano e bambini che dicono “ancora”. “C’era una volta…”: dove, quando, perché? Ovunque sempre e mai, è la risposta, che solo il come renderà unica. Il racconto trasmette da una generazione all’altra un patrimonio di umanità. La curiosità, la paura, la gioia e il dolore, l’odio e l’amore ci abitano da sempre e aspettano soltanto parole per dirsi. Parole condivise perché insieme ci si comprende meglio. Ma per raccontare una fiaba, occorrono tempi verbali complessi come il condizionale semplice o composto, il passato remoto, il futuro anteriore: tempi che aprono la mente ed evocano, al di là dei bisogni (ho fame, sonno, freddo), la sfera dei desideri (avrei voluto, domandai, sarebbe stato). Termini che a dipendenza di chi e come li usa aprono prospettive di libertà o chiudono a scenari di paure. Nelle fiabe la lentezza del racconto crea sospensione che da tempo al pensiero di formulare ipotesi, di sbagliare e riprovare prima di raggiungere il conforto del lieto fine. Le favole aiutano a giungere al cuore delle questioni contribuendo alla costruzione dell’identità rafforzando l’autostima pur nelle diversità, riconoscendosi speciali. L’etica delle fiabe è semplice e sempre valida: qualunque cosa accada, alla fine il Bene vince e il Male soccombe. Come accade nelle Mille e una notte, Sharazade si salva raccontando una storia. Le storie permettono di orientarsi, di dare valore alle cose e di sentirsi parte di una comunità. La narrazione ci seduce infatti, aggira le nostre difese intellettive, ci porta dove vuole agendo su una leva imbattibile: il piacere. Questo va a volte controbilanciato dallo spirito critico.
Trent’anni orsono Francis Fukuyama, a pochi anni dalla caduta del Muro di Berlino, scriveva che la storia era arrivata al capolinea. La democrazia liberale e l’economia di mercato, con la globalizzazione, avrebbero conquistato il mondo. Sappiamo che non tutto è andato in quel senso, anzi! Era un sogno e come già raccontava Penelope nell’Odissea “sono due le porte da cui entrano i sogni, una di corno, l’altra di avorio: da una entrano quelli falsi e dall’altra quelli veri”. Oggi il disordine sotto il cielo è grande e la situazione globale non è affatto eccellente. Anzi, la pace è finita e così ricomincia anche la Storia, una storia europea poco tranquilla e bipolare dove l’Europa conta sempre meno come anche gli USA sono meno centrali nel panorama mondiale per rapporto a Russia, Cina ed una serie di Paesi emergenti.
Ora, le neuroscienze ci dicono che esistono anche i non-sognatori (no-dreamers) e questo è un problema sul piano sociale (e politico, direi) in quanto chi non sogna è spesso solo, arrabbiato, vendicativo, complottista e quindi pericoloso. Invece un vero sogno ci connette con l’esterno (vicino e lontano). Karl Popper, liberale, sosteneva la società aperta. Forse ce lo siamo dimenticati di fronte ai populismi, che è altro dagli identitarismi. Papa Francesco ha pure lui suggerito “Sognate con gli altri, mai contro gli altri! Da soli si rischia di avere miraggi, per cui vedi quello che non c’è mentre i sogni si costruiscono insieme”.
Narrazione, favole, sogni, di cosa stiamo parlando? Parliamo della possibilità e della necessita di costruire quei sogni lucidi, sogni che uniscono, sogni che comunque, in senso neurofisiologico, sono anch’essi una sequenza di immagini, idee, emozioni, sensazioni. I sogni sono il regno della libertà e dell’imprevedibile da affrontare. Ma sono anche realtà in continuo movimento, che variano a seconda delle epoche e delle culture. È nota la frase “I have a dream” di Martin Luther King. Che sia ora di un New Dream globale e locale? Di una Offensiva liberale? Maria Montessori, nota pedagogista, affermava che la richiesta più importante dei bambini verso l’adulto è “aiutami a fare da solo” e si riferisce quindi all’autonomia necessaria per diventare persone libere e responsabili. Antichi Greci e Romani non dicevano di aver fatto un sogno, ma di averlo visto e che solo ciò che si vede crea sapere e conoscenza. Un sapere a volte previsionale, che ci permette di decidere e proiettarci verso il futuro piuttosto che l’interpretazione psicanalitica dei sogni che altro non fa’ se non guardare al passato (che non torna anche se era un’epoca dell’oro) e semmai al presente.