Jean-Jacques Aeschlimann - Consigliere comunale PLR Lugano
Anche in Svizzera l’attivismo per il clima sta prendendo una piega preoccupante. Sempre più spesso assistiamo ad azioni di protesta che violano una legge (oppure i diritti di altre persone), e ad autori che si giustificano dicendo di agire «in nome di una causa superiore» – niente di meno che «la salvezza del pianeta».
Quando vengono invitati a usare, piuttosto, i tanti strumenti offerti dalla nostra democrazia diretta, la risposta è che «non c’è più tempo». Il messaggio che viene fatto passare è che chi vuole salvare il mondo non può perdersi in quisquilie come le raccolte di firme, le campagne di voto, la politica parlamentare, e tutti gli altri freni che il nostro sistema politico oppone al suo fervore sacro.
Sono molto sorpreso dall’atteggiamento che la politica sta assumendo, di fronte a questi fenomeni. Le condanne sono davvero poche, e sempre precedute da frasi come «i modi sono sbagliati, ma il problema è reale». Come se il fatto di avere un fine nobile giustificasse qualsiasi mezzo di protesta.
Per quanto mi riguarda, sarebbe bene adottare un linguaggio più chiaro. Chi blocca il traffico in una città oppure in autostrada incollandosi alla strada, chi danneggia opere d’arte, chi imbratta i muri di edifici privati, chi vandalizza campi da golf, per me resta sempre e solo un hooligan – qualunque sia la squadra, sportiva o politica, per cui dice di fare il tifo.
Non uso alla leggera il paragone con il tifo organizzato: è un mondo che conosco benissimo, e che è spesso giudicato in base a luoghi comuni. In fondo, parliamo di una delle ultime forme di aggregazione giovanile della nostra società: esperienze autogestite pluridecennali, fatte di canti, colori e attaccamento a valori forti. Come sportivo e come dirigente, mi sono confrontato tante volte con gli ultras: sono state discussioni a volte dure, sempre però orientate al dialogo e al riconoscimento che l’altro ha il diritto di esprimersi – finché rispetta le regole.
Certo, sappiamo tutti che nel mondo ultras c’è anche chi vuole solo fare casino. Persone distruttive, che però – a differenza di «black bloc» e incollatori stradali – hanno sempre la trasparenza di esporsi alle conseguenze del loro agire. Trattati dalle autorità come nemici pubblici, spesso anche al di là della gravità delle loro azioni individuali, queste persone si assumono la responsabilità delle loro azioni e non accampano mai scuse per nobilitarsi.
La durezza giustamente riservata dalle autorità a queste persone, purtroppo, oggi non la vedo applicata agli hooligan climatici. L’impressione è che sia all’opera una repressione a due velocità, come se esistessero forme di violenza meno gravi di altre. Questa disparità di trattamento non è accettabile da parte di uno Stato, e non fa altro che spingerci verso il rischio di un’escalation – o, come minimo, di alimentare il disprezzo di alcune persone verso le autorità.
Sappiamo tutti che oggi la nostra società è sempre più divisa, in una dinamica di tensione alimentata dai social media. La politica ha il dovere di contrastare l’odio con decisione, lasciando nel contempo il giusto spazio di espressione a chi – senza ricorrere alla violenza – intende esprimere un’opinione dissenziente.
La ricerca di questo equilibrio è un esercizio difficilissimo: di certo, il fatto di trattare gli uni e gli altri come «figli e figliastri» non ci aiuta a trovarlo. Nessuno intende censurare l’attivismo per il clima, ma abbiamo il dovere di ricondurlo nel solco della democrazia diretta – e di separare, come facciamo per il tifo organizzato, chi agisce in buona fede da chi vuole solo distruggere e per questo merita di essere duramente punito.