Arno Rossini: «Posizioni cruciali affidati all’amico dell’amico. E se chi semina non ha le giuste competenze...».
La povertà di Lukaku e la fame di Gattuso: «Lui, scappato dalla Calabria per il pallone».
SAN GALLO - L’amichevole con la Croazia vale poco più che nulla, i match di Nations League contro Spagna e Germania invece almeno qualcosa contano. Però - si deve essere sinceri - anche per essi non si perde il sonno. Quando si tratta di nazionali sono le grandi competizioni, quelle storiche, a fare la differenza. È per Europei e Mondiali che i tifosi - ma anche i giocatori - perdono la testa. E in quelle la Svizzera ha, nella sua storia, giocato sempre un ruolo da comprimaria. Mai da protagonista. Neppure la cosiddetta generazione d’oro ha saputo sedersi al tavolo - da pari - con le big del pallone continentale o globale. E, forse, il massimo lo ha già ottenuto…
«L’apice, il picco del rendimento, è stato raggiunto - ha confermato Arno Rossini - adesso è dura: non penso si possa crescere ancora. Mettiamola così: nei prossimi dieci anni sarà difficile riuscire a ottenere gli stessi risultati raggiunti degli ultimi dieci».
Tenuto conto delle qualità dei singoli, si può essere soddisfatti di quanto raccolto?
«Credo che in fin dei conti sia stato tirato fuori il massimo da un gruppo comunque competitivo. I vari Xhaka, Shaqiri, Seferovic… questi giocatori hanno fatto parte di una squadra forte ma non al livello delle prime al mondo. Ciò non significa che non avremmo potuto ottenere di più; si sarebbe pure potuto vincere. A certi livelli sono tuttavia spesso i particolari, gli episodi, a fare la differenza».
E le qualità.
«Certo, perfetto. Il Belgio, per parlare di una nazionale ultimamente molto forte, ha i campioni in grado di girare una partita. Lo stesso di può dire dell’Olanda, tornata dopo un periodo di appannamento. Da noi non ci sono. Abbiamo ottimi giocatori…».
Il citato Belgio non è certo una nazione con un bacino d’utenza infinito. Perché allora la sua selezione può ambire a vincere ma quella svizzera non è mai arrivata a tanto?
«I fattori sono diversi. Uno riguarda il lavoro fatto con i giovani, poi si deve pensare ai concorrenti, alla fame e infine alle raccomandazioni».
Un passo per volta.
«Negli ultimi anni in Belgio hanno fatto un lavoro importantissimo con i ragazzi. Un lavoro estremamente efficace, che ha dato e sta dando frutti e ha reso competitivi i diavoli rossi. Lo stesso non si può dire per la Svizzera che, mia impressione, nel recentissimo passato si è forse un po’ seduta. Mi sembra che manchi un po’ di spinta nella coltivazione dei talenti. Dobbiamo salire nuovamente su quel treno e tornare a essere performanti. Servirà investire tanti soldi su centri di formazione e allenatori...».
Questo non spiega però il livello raggiunto dalle selezioni. Il picco belga sembra più alto, se così si può dire, rispetto al "nostro".
«Il primo sport di squadra, in Belgio, è per distacco il calcio. Da noi c’è anche l’hockey. Non sono pochi i ragazzi che, arrivati al momento di scegliere, rapiti dall’atmosfera puntano sul disco e sul bastone invece che sul pallone. Questa è la concorrenza di cui parlavo. Poi c’è il freno più grande: una diffusa mancanza di mentalità. Spesso da noi si dice: “se c’è la possibilità mi piacerebbe riuscire nel calcio”. Giusto, più che corretto, ma sicuramente più debole rispetto a posti dove il pensiero è: “voglio riuscire nel calcio”».
Ciò da cosa è dovuto?
«Dal benessere diffuso presente nel nostro Paese, che è assolutamente un aspetto positivo, e dalle tante possibilità che sono date ai ragazzi. E anche questo è un sicuramente un plus. Però, inutile girarci intorno, perché una carriera si concretizzi serve fame».
La stessa di cui parla spesso Lukaku, reduce da una giovinezza di stenti?
«Esatto. O quella mai nascosta da Gattuso, un altro protagonista che conosciamo bene. Rino è dovuto scappare dalla Calabria. Il pallone era per lui una via d’uscita...».
Mancano le raccomandazioni…
«In Paesi come il nostro, dove il bacino d’utenza non è enorme, è importante che ogni potenziale talento sia seguito con attenzione. Per questo credo che servano degli allenatori, dei formatori, più che competenti nei settori giovanili dei club. Dei professionisti che abbiano grande esperienza per quel che riguarda il calcio - ovviamente - ma che abbiano anche a cuore lo sviluppo dei più piccoli. Che li accompagnino nel loro percorso verso l’età adulta. A differenza di altre piccole nazioni, la Danimarca e l’Austria per esempio, da noi tali figure non sono sempre preparatissime. A volte quei posti, cruciali, sono affidati all’amico dell’amico. E se chi semina non ha le giuste competenze, non si può sperare di ottenere un buon raccolto».