È la generazione “Quiet quitting”: lavorano il minimo indispensabile. I motivi? Mancanza di apprezzamento da parte dei datori
Due persone raccontano perché hanno deciso di fare il meno possibile sul lavoro. Basta con straordinari e reperibilità.
ZURIGO - Esiste un nuovo fenomeno che gli osservatori del lavoro hanno notato: si chiama "quiet quitting". Ovvero i lavoratori fanno solo il minimo indispensabile. Quelli insomma che non si sbattono più di tanto. Il fenomeno a quanto pare è particolarmente diffuso tra i Millenials e la Generazione Z. Insomma niente straordinari, poca flessibilità, di fare turni volontari la sera o nei weekend neanche a parlarne. Il fenomeno è stato osservato negli Stati Uniti grazie a un'indagine di "Resume Builder" che ha evidenziato come il 20% dei dipendenti ha uno scarsissimo trasporto sul lavoro, e appena possono si defilano. L'argomento è diventato d'attualità anche in Svizzera, e oggi 20 Minuten ha raccolto le testimonianze di coloro che hanno deciso di lavorare solo quanto previsto dal loro contratto. Non un minuto in più. E soprattutto mai sacrificare gli aspetti della vita privata, ritenuta molto più importante della carriera.
Le testimonianze - C'è B.B. 36 anni, lavora in ambito informatico e guadagna 2000 franchi al mese. «È troppo poco per il mio livello di istruzione. Altri colleghi guadagnano molto di più». Da qui la sua decisione di lavorare solo quanto riteneva opportuno in base al suo stipendio. Quando ha informato il suo datore di lavoro della sua decisione di lavorare solo il minimo indispensabile, il capo non è stato molto contento. «Ha brontolato molto. Ma ha dovuto accettare la mia scelta perché non poteva pagarmi di più. Quindi cascasse il mondo, ma lascio sempre l'ufficio dopo le mie otto ore di lavoro».
Stesso atteggiamento da parte di D.B. giovane lavoratrice di Lucerna. Era partita con tanta volontà: era la prima ad arriva in ufficio, l'ultima ad uscire. «Ho sempre voluto essere la migliore e pensavo che un giorno avrebbe dato i suoi frutti.Ho svolto compiti che non facevano parte del mio lavoro, ma non ho mai sentito un grazie». Nel momento in cui ha chiesto un aumento al capo, si è sentita rispondere che se voleva guadagnare di più si sarebbe dovuta cercare un'altra professione. «Ero delusa e frustrata, da quel momento ho fatto solo quello che era previsto dal mio contratto, niente di più».
Storie molto simili a tante altre e che Leila Gisin, psicologa del lavoro e docente presso l'Università di Scienze Applicate e Arti di Lucerna, conosce molto bene. Le definisce "dimissioni silenziose", ed è un comportamento diffuso soprattutto tra i ragazzi. «I giovani hanno visto con i loro genitori come la vita da stacanovisti abbia un impatto negativo sulla salute, ad esempio sotto forma di burnout. Per questo motivo decidono di non fare una vita del genere", spiega l'autrice che critica l'uso continuo del telefonino che non ci fa staccare dal lavoro: «Attraverso lo smartphone siamo comunque costantemente raggiungibili, ci stiamo muovendo in un'area molto malsana». La psicologa difende dunque il Quiet Quitting, se questa vuol dire prendersi una pausa dal lavoro. «Stiamo vivendo un cambiamento nella cultura del lavoro. Se un datore ti chiede molto ma non c'è un riconoscimento, nasce inevitabilmente la frustrazione. Ti chiedi perché lo stai ancora facendo».
Il portavoce di Unia, Philipp Zimmermann, fa notare che la pressione sulle prestazioni lavorative è aumentata. «Prima non era così. Oggi alcuni datori di lavoro hanno aspettative esagerate nei confronti dei dipendenti, come ad esempio dover essere disponibili sui loro telefoni cellulari 24 ore su 24, sette giorni su sette. I confini tra lavoro e tempo libero stanno scomparendo sempre di più, e questo è un problema».
È quindi tanto più importante che le disposizioni legali di tutela dei dipendenti vengano applicate. È illegale per i dipendenti fare continui straordinari, addirittura non retribuiti, ed essere sempre disponibili. Gli straordinari possono esserci, ma non devono diventare la prassi», afferma il portavoce di Unia.