In un mondo sempre più diviso, tra guerre e crisi, a cosa serve un Forum economico mondiale?
LUGANO/DAVOS - Discorsi, incontri e strette di mano. A Davos, proprio in questi attimi, numerosi leader internazionali a livello di imprese, Stati e ONG stanno parlando tra di loro, discutendo dei principali problemi che insidiano il mondo.
È infatti in corso il Forum economico mondiale (WEF), che tra sfide ambientali, energetiche e militari, nella sua edizione per il 2023 si concentrerà - come dice il titolo stesso della conferenza - alla «Cooperazione in un mondo frammentato».
Ma quali sono le possibilità che quest'evento possa produrre qualcosa di concreto nel 2023? «Quasi nulle», ha spiegato a Tio/20 Minuti il Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano Raul Caruso, «nel senso che questo appuntamento in un anno difficile e di transizione è bene che si faccia, ma aspettarsi un risultato di qualsiasi tipo? Onestamente lo vedo molto improbabile. Però, questo non deve stupire».
Perché mai non dovrebbe stupirci? «Siamo in un momento in cui le relazioni tradizionali sono molto difficili, in cui mancano momenti istituzionali unificanti. Vi sono poi sono diverse ambiguità tra alcuni Paesi. Davos, che è sempre stato un appuntamento basato su un’intesa di fondo sulle questioni principali, avviene quest'anno senza una condivisione di pensiero».
«La guerra ha messo i Paesi sotto pressione»
A tal riguardo, sono diversi i fattori che hanno portato a sempre più divisioni, a un mondo frammentato. «Già nel 2009 c'erano stati segnali evidenti di una deglobalizzazione dopo la grande crisi anche se in qualche modo sembrava che la globalizzazione tenesse, ma il Covid e i lockdown, la politica statunitense di Trump (di negazione del dialogo) e infine la guerra hanno dato il colpo finale», ha ribadito l'esperto.
Ma il conflitto armato quanto pesa sulle discussioni? «Dal punto di vista politico è evidente che la guerra tra Russia e Ucraina sia difficile da decifrare: i rapporti tra Paesi sono sostanzialmente sottoposti a una pressione che fino a pochi anni fa non c’era. Basta vedere i risultati delle votazioni all’assemblea generale dell’Onu per capire che determinati assetti sono instabili. Ad esempio a Davos c’è l’Arabia Saudita, che in questo frangente si è mostrata non più in linea assoluta rispetto agli USA. Oppure l’Italia, che ha stretto un accordo con l’Algeria, un Paese che si è astenuto rispetto alla condanna dell’aggressione russa. Due esempi, ma se ne potrebbero fare altri: per quanto difficili siano una crisi finanziaria o una situazione di pandemia, una guerra è sicuramente - soprattutto con protagonisti così importanti come la Russia - una situazione molto più delicata».
Nessuno sa che ne sarà del mondo fra sei mesi
Se la globalizzazione sta invertendo la marcia, che forma prenderà la cooperazione internazionale? «Diciamo che oggettivamente adesso c'è una visione del futuro più “tetra”. Nessuno sa in fondo che sarà del mondo fra sei mesi. Parlarsi e confrontarsi è quindi importante: delle idee a volte semplici possono diventare potenti se vengono condivise da più soggetti della classe dirigente».
Per l'esperto è però possibile che ci sia una sorta di ritorno al passato, con alleanze più ristrette. «Può essere che torni il tempo delle grandi regionalizzazioni, in cui contano più i Continenti a livello di alleanze e dialoghi economici e politici. In tal caso l’Europa avrebbe dei vantaggi, essendo l’unica regione con istituzioni e meccanismi che - per quanto siano criticabili - funzionano. Come si può evincere anche dal titolo scelto, il vero tema del WEF si può riassumere in: "Che sarà del mondo?".
In ogni caso, è comunque un evento in cui qualcosa si muove. «Sicuramente ognuno si ritaglia la sua agenda, quindi sicuramente ci sono delle trattative a margine, meno importanti, tra Stati o aziende. Non bisogna comunque aspettarsi che arrivino grandi risultati, che diano una strada da seguire a livello internazionale».
Le critiche? «Sarebbe strano non ci fossero»
Al di fuori delle recinzioni, però, piovono critiche. «Non c’è da stupirsi, è normale che sia così», ha chiarito Caruso. «Su determinati temi la società civile si sente più avanti (o comunque di posizione distante) rispetto all'élite, al mondo delle imprese o quello politico. Le proteste sono connaturate a una manifestazione di questo tipo: i grandi appuntamenti richiamano sempre sia le posizioni allineate al mainstream sia quelle alternative. Non ci fossero le proteste dispiacerebbe anche a chi organizza, per certi aspetti».
Ma cosa può portare alla Svizzera, il fatto di ospitare questo Forum? «Ritengo che nel suo status di Paese neutrale nel cuore dell’Europa fa bene a essere l’ospite di queste manifestazioni, che rafforzano uno status di neutralità consolidato nel tempo. È un ottimo vantaggio dal punto di vista della reputazione, che è un fattore da non sottovalutare».