Samuele C., 28 anni, è uscito dal tunnel della droga. In "Scacco alla regina bianca" racconta il suo viaggio all'inferno e la sua rinascita.
LUGANO - La cocaina l'aveva trascinato in un vortice senza fine. Per pagarla, tralasciava tutto il resto. Maturando debiti a non finire. È la storia di Samuele C, 28enne del Luganese che si racconta in "Scacco alla regina bianca" (Fontana Edizioni), presto in libreria. Tio.ch ha intervistato Samuele.
"Scacco alla regina bianca". Perché non scacco matto?
«Perché le dipendenze sono subdole. Ci devi convivere forse per tutta la vita. Devi costantemente impegnarti per non ricadere. Attualmente mi trovo in comunità, nel canton Friborgo. È da un anno che sono qui. Presto uscirò. E piano piano cercherò di ritrovare la normalità».
Il primo incontro con la cocaina?
«Avevo 17 anni. Ero molto ribelle. L'ho provata come si provano tante altre cose. La consumavo saltuariamente quando uscivo con gli amici. Non vedevo il consumo come un problema. Potevo anche starne senza all'epoca. Ho provato anche altre sostanze. Non mi hanno mai dato problemi. La cocaina sembrava una cosa cool e basta».
E quando ti sei accorto che stava diventando una dipendenza?
«Fino a 25 anni la consumavo ogni tanto. Non mi sentivo schiavo di questa sostanza. Poi ho avuto un mix di problemi: con una scuola, sul lavoro e anche nella vita sentimentale. È a quel punto che ho cominciato a consumare cocaina tutti i giorni. Sono andato avanti così per tanti mesi».
Come te la procuravi?
«È facilissimo. Si trova dappertutto. Col passaparola in particolare. In Ticino ci sono dei posti conosciuti dove si compra e si vende. Vai lì, entri in contatto con le persone "giuste", ti scambi il numero e così via. Fissi un appuntamento dopo l'altro».
La cocaina è cara.
«Più dell'oro. Per comprarla dilapidavo tutto quello che avevo dalla disoccupazione. E in parallelo non pagavo le fatture. I precetti esecutivi si moltiplicavano».
Chi sono gli spacciatori?
«Gente in assistenza. Nullatenenti. Nella maggior parte dei casi sono persone che a loro volta hanno una dipendenza».
E chi sono i consumatori?
«C'è un sacco di gente insospettabile. Avvocati, organizzatori di eventi, proprietari di locali. Persone benestanti che vivono una vita stressante e che cercano nella droga qualcosa per reggere le tensioni della loro esistenza. Spesso hanno famiglia. Ma la famiglia non sa nulla. Sono "bravi" a nascondere».
Cosa cercavi tu nella cocaina?
«Sollievo. Spensieratezza. Volevo sentirmi forte. In un primo momento ti senti onnipotente. Poi subentrano gli effetti collaterali. Attacchi d'ansia, paranoia estrema, disinteresse per tutto, sfiducia. È lì che parte il circolo. Per stare meglio poi cerchi altra droga. Sempre di più. Il tuo corpo la richiede di continuo».
A un certo punto hai chiesto aiuto. Come è andata?
«Io sono una persona ambiziosa. Mi guardavo allo specchio e non mi riconoscevo. Non volevo quella vita. Un giorno di circa due anni fa mi sono avvicinato a mio padre. E gli ho detto quello che lui non avrebbe mai immaginato. È un uomo severo. Rigido. E proprio per questo sono andato prima da lui. Sapevo che non avrebbe lasciato correre, sapevo che si sarebbe mosso».
E poi?
«Inizialmente c'è stato il ricovero nel reparto psichiatrico di un ospedale. La parola comunità mi faceva paura. E forse dentro di me pensavo di cavarmela così. Se ce la faccio in ospedale a non consumare, perché non avrei dovuto farcela fuori? Questo era il mio ragionamento. Ed effettivamente per un certo periodo, dopo il mio ritorno a casa, è andata bene. Fino al giorno in cui, casualmente, mi sono rotto il menisco».
Un episodio anche banale.
«Da lì in poi ho ripreso a consumare cocaina. Più di prima. Stavo di nuovo finendo nel baratro. A quel punto ho di nuovo chiesto aiuto. Stavolta ne ero convinto, inutile mentire a me stesso: la comunità era l'unica via. Sono partito, ho lasciato il Ticino. E forse è stato un bene. Perché quando devi superare certi fantasmi è meglio stare lontani dal contesto in cui si sviluppano. Non so se tornerò. Forse. Al momento sono felice qui».
Ti fa paura quanto hai vissuto?
«Sì. Allo stesso tempo penso che poche altre cose mi potranno scalfire dopo questa esperienza. Ho cominciato a scrivere in ospedale. Avevo il caos nella testa. L'80% di quanto si legge in "Scacco alla regina bianca" è praticamente in presa diretta. C'è tanta sofferenza dietro. In comunità vedo ragazzi di 15 anni che consumano già droghe pesantissime. Sono consapevole che questo libro potrebbe essere utile ad altre persone. Ed è qualcosa che mi scalda l'anima».