Nel Paese sono stati rilevati oltre 820mila casi. Dopo aver rifiutato i vaccini, Pyongyang chiederà ora aiuto alla Cina?
PYONGYANG - Ufficialmente per la Corea del Nord si tratta di prima ondata. A voler fare i conti con la realtà però le sembianze sono piuttosto quelle di un potenziale tsunami ora che la pandemia di Covid-19, tenuta fuori (perlomeno a parole) dai blindatissimi confini del Paese per quasi due anni e mezzo, ha fatto breccia.
Due anni e mezzo che di fatto, a quelle latitudini, è un po' come se non fossero mai trascorsi. Perché a Pyongyang l'emergenza è stata affrontata impugnando le chiavi - dei confini - e il diniego, smentendo categoricamente ogni avvisaglia di un possibile focolaio. Questo fino a giovedì scorso. Quattro giorni dopo, i casi che manifestano sintomi riconducibili al coronavirus, secondo le cifre dell'agenzia nordcoreana Kcna, hanno superato la soglia degli 800mila. Circa 820mila malati in tutto.
Un arsenale difensivo "spuntato"
Malati sì, ma non sempre il regime di Kim parla apertamente di Covid. Anche se qui l'atavica mancanza di trasparenza non c'entra. Quei casi spesso definiti come febbri inspiegabili sono tali perché la Corea del Nord non dispone di infrastrutture e forze adeguate per testare la popolazione. E quindi, pur trattandosi con ogni probabilità di infezioni da coronavirus, non esiste la certezza clinica per confermarlo.
I numeri raccontano d'altronde una verità piuttosto chiara: da quando la pandemia è iniziata, dati più recenti dell'Organizzazione Mondiale della Sanità alla mano, la Corea del Nord ha effettuato circa 64'000 test. I vicini dell'altra Corea, a sud oltre la zona demilitarizzata, nello stesso tempo ne hanno messi a referto 172 milioni. E se non riesci a individuarlo, poterlo combattere è un'impresa disperata, considerando poi quanto sia spuntato l'arsenale difensivo nordcoreano sul fronte sanitario.
Non sorprende che il leader nordcoreano abbia utilizzato parole come «disastro» e «subbuglio» nel descrivere la situazione. Il Paese asiatico per ora non ha infatti potuto fare altro che stringere ancora di più quella serratura che già aveva chiuso a più mandate da inizio 2020, unica vera barriera di difesa di un sistema ospedaliero che non può reggere l'urto di una variante Omicron libera nella sua corsa. Non ci sono le strutture, mancano farmaci e capacità nelle terapie intensive.
Una richiesta d'aiuto a Pechino?
Prima di tutto però, quella nordcoreana è una popolazione in cui - un po' come nel caso della Cina - il virus non ha avuto modo di circolare molto ed è inoltre spoglia di qualsiasi grado di immunità, non avendo - a differenza dell'altro grande Paese a lungo "negazionista" del Covid-19, ossia il Turkmenistan, il primo a istituire l'obbligo vaccinale per gli adulti e dove lo "zero casi" permane tuttora - distribuito vaccini. In quest'ottica è inevitabile chiedersi: quanto tempo potrà reggere la Corea del Nord con il solo lockdown? Kim Jong-un ha affermato che Pyongyang intende «imparare attivamente» da Pechino.
Ma il fatto di aver nominato esplicitamente il Dragone, ha spiegato alla BBC, Owen Miller, esperto della School of Oriental and African Studies dell'Università di Londra, potrebbe essere anche il segnale di ripensamento. «Credo che vogliano disperatamente l'aiuto da parte della Cina e la Cina ne offrirà quanto ne serve». In altre parole, vaccini. E il prima possibile.