L'affronto israeliano non resterà senza risposta. Teheran promette vendetta. Il commento dell'analista geopolitico Dario Fabbri.
TEL AVIV - Israele oltrepassa un'altra linea rossa. Con il rischio di provocare un'ulteriore escalation di violenza in Medio Oriente. Prima la banlieue di Beirut, quartier generale di Hezbollah, poi Teheran. Due raid mirati che hanno ucciso la scorsa notte l'alto comandante del Partito di Dio Fuad Shukr, e soprattutto il leader di Hamas Ismail Haniyeh.
Tel Aviv insomma mostra i muscoli e, contrariamente a quanto ventilato durante gli scorsi giorni, non sembra aver paura di aggiungere un altro fronte alla guerra in corso a Gaza.
L'affronto israeliano non resterà però senza risposta. Colpire il cuore del grande nemico significa mostrare al mondo che nessun leader di Hamas è al sicuro. Ma quali sono i possibili scenari futuri e come leggere l'azzardo (se di azzardo si tratta) del Mossad? Ne abbiamo parlato con l'analista geopolitico e direttore della rivista Domino, Dabio Fabbri.
Lo scorso mese di aprile l'Iran ha intrapreso un cambio di paradigma importante colpendo per la prima volta direttamente lo Stato ebraico. Ora la situazione è ancora più grave. Quali sono i margini di manovra di Teheran?
«Non sono moltissimi, anche se può sembrare controintuitivo. L'Iran storicamente, dall'inizio della Repubblica islamica nel 1979, non ha mai dimostrato né grandi capacità né grandi inclinazioni a condurre una guerra diretta, tantomeno contro Israele. Lo Stato ebraico è l'unico soggetto diverso, sul piano militare, nella regione. Oltre alle forze armate nettamente più forti si tratta di una potenza nucleare. Potrebbe reagire in maniera impulsiva e tentare un attacco frontale a Israele, pure se non conviene sul piano della logica. L'attacco del 13 aprile lo dimostra. L'obiettivo era di saturare la difesa aerea, specie l'Iron Dome, nella consapevolezza però che si trattasse di un attacco scenografico. Anche perché la guerra tattica in Medio Oriente l'Iran la sta vincendo. Un successo frutto dei "proxy", gli agenti di prossimità, Hamas, Hezbollah e gli Houthi».
Il premier israeliano Netanyahu dopo gli attacchi del 7 di ottobre aveva promesso di colpire tutti i leader di Hamas anche fuori dai confini di Gaza. Si tratta di una dimostrazione di forza?
«Senza dubbio, è un colpo sul piano tecnico, scenografico e mediatico davvero notevole. Israele ha ucciso il capo politico di Hamas, lo ha fatto in territorio iraniano (il suo principale nemico) e ha eliminato un signore protetto dalla Turchia. Con il paese di Erdoğan, negli ultimi giorni, Tel Aviv ha avuto infatti più di qualche battibecco. La reazione turca infatti è stata molto dura».
Servirà a vincere la battaglia di Gaza?
«No, la guerra nella Striscia non si vince sul piano militare. Non si vince decapitando l'organizzazione. Hamas è un partito politico. Si tratta di un acronimo, peraltro gemmazione della Fratellanza Musulmana. È un'idea. Difficilmente si estirpa un'idea soltanto con un'azione militare».
Tel Aviv può permettersi una guerra aperta su più fronti?
«Queste non sono guerre su due fronti e Israele lo sa molto bene. I fronti di guerra sono un'altra cosa. Significa avere una parte notevole del proprio esercito assorbito su due scenari e avere l'intera popolazione in stato di belligeranza. Questo Israele probabilmente non potrebbe sostenerlo per una questione demografica e territoriale. L'obiettivo di Tel Aviv è però mostrare di essere capace di intervenire su più fronti senza paura di disperdere le energie. È in parte un bluff che dà per scontato che una guerra aperta non ci sarà. Ma soprattutto Israele dimostra notevoli capacità di intervenire oltre le linee nemiche».
Per quanto riguarda Hamas, si tratta sicuramente di un duro colpo. Ma cosa cambia ora per il movimento palestinese?
«È difficile esprimersi. Sicuramente Haniyeh aveva un peso notevole. Era un capo politico che gestiva le trattative negoziati sugli ostaggi e sul cessate il fuoco. Ci sarà uno sbandamento inevitabile. Ma Hamas è un partito politico. Non è automatico che senza il suo leader scompaia. Inoltre il consenso verso Hamas, che prima del 7 ottobre nella Striscia di Gaza non era altissimo, è salito in questi mesi. Un aumento dettato da una popolazione stremata e martoriata davanti alla controffensiva israeliana. E questo con o senza il capo politico rimarrà».
Israele con questo raid ha rinunciato definitivamente alle trattative per liberare gli ultimi ostaggi a Gaza?
«Ci sono troppi elementi che non conosciamo e che invece l'intelligence israeliana possiede: quanti sono ancora gli ostaggi vivi? Dove si trovano? Certo non possiamo immaginare questa azione come un "buon tono" che conduca a un miglioramento dei negoziati, ma è altrettanto plausibile che Israele abbia deciso di giocarsi tutto imponendo la propria volontà. E soprattutto chi ha ordinato gli attacchi del 7 di ottobre deve pagare ai massimi livelli».