La crisi globale dell'approvvigionamento per ora non ci riguarda ma c'è chi sostiene che presto potrebbe peggiorare
LONDRA - Mancano i “pezzi“ per fare le cose, manca l'energia per produrle e mancano i mezzi di trasporto per prenderle dai porti affollati e consegnarle nei negozi. Viviamo in un momento difficile a livello globale - e fortunatamente un po' meno a livello locale - per quanto riguarda la produzione, il trasporto e la distribuzione delle merci.
I motivi sono diversi, alcuni di carattere endemico e legati a come alcune materie prime vengono prodotte (soprattutto riguardo ai chip, che sono molto difficili da realizzare e vengono prodotti in una manciata di stabilimenti attorno al mondo) e trasportate (in questo senso i vincoli sono spesso moltissimi e vengono sopportati da una fascia di professionisti che lavorano duramente tutto l'anno). Altri sono però legati alla pandemia che ha frenato tutto ovunque - e continua a farlo - ostacolando tanto le fabbriche quanto navi e camion.
A questo freno è poi seguita la voglia di ripartire globale, istantanea e non graduale, dopo il primo lockdown. Una volta esauriti gli stock, ci si è finalmente resi conto che qualcosa non andava. Che tanto le auto quanto le console e i telefonini non si potevano assemblare perché, semplicemente, non era possibile. Con ulteriori freni alla produzione, frustrazioni e rischio licenziamento per decine di migliaia di lavoratori.
Una situazione difficile, dicevamo che al momento però non ci tange. Non ci manca la benzina, il gas non rincarerà e nei negozi gli scaffali non si stanno svuotando. Non è chiaro se, e per quanto, questa situazione potrà continuare e se la Svizzera, e l'Europa, potranno uscirne indenni recuperando il gap prima che questo possa farsi sentire.
Non ne sono convinti gli analisti di Moody's, secondo i quali la crisi globale dell'approvigionamento «dovrà peggiorare ancora prima di migliorare», scrive la Cnn, «il sistema globale inizia ora a mostrare tutta una serie di problemi in tutti i suoi angoli». Una versione che non convince, invece, la banca americana JP Morgan Chase che sostiene come tutto tornerà presto alla normalità.
Come spesso capita con queste cose solo il tempo potrà confermare ma alcuni indicatori possono farci capire dove gli effetti potrebbero farsi sentire un po' di più e dove meno. Uno di questi potrebbe essere il tasso di intasamento dei porti, dove milioni di container sono stoccati, in attesa di disbrigo.
Al primo posto - riporta Bloomberg nel suo report periodico - c'è quello di Los Angeles, Long Beach, con tempi di ritardo superiori ai 6 giorni. Si tratta della struttura più in difficoltà al mondo, e ha attirato anche l'interesse del presidente Joe Biden. Segue Shanghai (5 giorni) e Rotterdam (4 giorni), e quest'ultimo forse ci riguarda un po' più da vicino visto che molte merci che arrivano da noi vengono proprio da lì.
Non in classifica, ma comunque in grande difficoltà c'è il porto Felixstowe, non lontano da Londra, dove sono bloccate merci per 1.5 miliardi di sterline e che sono attese nei negozi per Natale. In questo caso, come negli altri, il vero anello debole si sono rivelati i camionisti: troppo pochi (anche perché molti hanno alzato bandiera bianca) per un fabbisogno che invece non è affatto calato, anzi.