Marco Noi, Deputato in Gran Consiglio per i Verdi del Ticino
La storia del nostro attuale benessere, con tutti i distinguo su come questo è costituito e distribuito nel mondo e nelle società, ha radici profonde e ramificate nel passato. Negli ultimi 200 anni il benessere (certamente quello materiale) ha vissuto un’accelerazione impressionante con il processo di industrializzazione fondato sull’energie fossili.
L’intenso sfruttamento delle risorse naturali e di quelle umane ha permesso di creare abbondanti beni di prima necessità come di altro genere. Il processo di industrializzazione, che mira ad un ideale di comodo benessere (comodo per chi?) non è però un percorso senza ostacoli, poiché porta con sé parecchi effetti collaterali indesiderati, chiamati “esternalità”. Inquinamenti vari e condizioni di lavoro indegne sono esempi di questi effetti indesiderati.
Negli ultimi decenni, le società industrializzate occidentali essendosi date delle regole per ripulirsi da queste esternalità (almeno quelle più visibili), hanno “risolto” il problema esportando nei paesi in via di sviluppo i processi industriali più dannosi dal punto di vista ambientale e sociale, sfruttando evidentemente la mancanza di regolamentazione e lo scarso potere contrattuale dei paesi di destinazione.
Spesso poi in questi stessi paesi sono presenti ingenti risorse naturali come quelle energetiche, quelle minerali (dalle quali si ricavano metalli e terre rare per la nostra industrializzazione avanzata) e quelle agricole, il cui sfruttamento ha altrettanti grandi e dannosi impatti ambientali e sociali.
Per dirla sinteticamente, noi siamo riusciti a ripulire e ordinare un po’ casa nostra, esportando altrove le indesiderate esternalità. Pertanto, non abbiamo risolto il problema, ma lo abbiamo semplicemente spostato in altri paesi.
L’iniziativa “Per multinazionali responsabili”, sulla quale saremo chiamati a esprimerci il prossimo 29 novembre, vuole contribuire a mettere un freno all’esportazione di dette esternalità a danno dell’ambiente e dei diritti umani in questi paesi, garantendo il diritto a chi si sentisse leso di adire alle vie legali contro una multinazionale targata CH presso un tribunale svizzero.
Questo fa sì che le nostre aziende (non le PMI, che sono escluse da questo discorso, a meno che non conducano relazioni economiche ad alto rischio sociale e ambientale) debbano portare la responsabilità per il loro operato così come per l’operato delle aziende sotto il loro controllo (formale o economico).
In un tempo dove il concetto di responsabilità è sulle labbra di tutti – e purtroppo spesso in odore di marketing – è interessante osservare l’interpretazione “a geometria variabile” che gli oppositori all’iniziativa, in prevalenza rappresentanti del mondo economico, ne danno.
Essere responsabili, per questi, sembra significare che su suolo patrio si riga dritto (o quasi), mentre all’estero ci si possa permette di tutto (o quasi). Inoltre sembra significare che se le multinazionali non svizzere si comportano illegalmente, le nostre per forza di cose sono obbligate a farlo anch’esse per non perdere la propria concorrenzialità, mandando al macero in buona coscienza (!) il proprio senso di giustizia. Infine, dulcis in fundo, c’è chi arriva anche a dire che le multinazionali possano tranquillamente sfruttare ambiente e popolazioni di paesi in via di sviluppo, perché intanto essere sottomessi e sfruttati sarebbe il loro Dharma, il “destino” che Dio ha voluto per loro (come se i paesi induisti e buddhisti non avessero firmato la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e i trattati internazionali sull’ambiente!).
Questo iniquo sistema di (ir-)responsabilità, che perpetua le prevaricazioni di chi ha più potere contrattuale su chi ne ha meno, semplicemente per tenersi il vantaggio di posizione e scaricare sugli altri i rischi sociali e ambientali, é stato abilmente riproposto, evidentemente da chi si oppone all’iniziativa, in un controprogetto indiretto che entrerebbe in vigore qualora l’iniziativa in votazione venisse bocciata.
Infatti, nel controprogetto, viene rotto il nesso giuridico di responsabilità della multinazionale nei confronti delle aziende da lei controllate in paesi terzi, in modo che se vi è lesione dei diritti umani oppure di norme internazionali sull’ambiente, a doverne rendere conto giuridicamente non è la multinazionale targata CH, bensì eventualmente l’azienda controllata. Ergo: si continuerebbe a esternalizzare i costi sociali e ambientali.
Il 29 novembre saremo chiamati a decidere che tipo di responsabilità vogliamo: una responsabilità a geometria variabile, che riduce tutto a mero vantaggio contabile-finanziario, oppure una responsabilità integra e integrale che non subordini la giustizia sociale e ambientale alla contabilità finanziaria di corto termine, perché sa bene che ciò che viene esternalizzato (rimosso) oggi, nel “villaggio globale” in cui siamo immersi, ritorna comunque con gli interessi su di noi, sui nostri figli e sui nostri nipoti, sotto forma di emergenze climatiche, ecosistemiche e migratorie.
Il 29 novembre scopriremo di che costituzione è fatto il nostro senso di responsabilità e di giustizia.