Matteo Muschietti, Coldrerio
Quando l'acqua si fa neve e le giornate sono molto brevi e fredde, quando le campane suonano a festa alle prime ore del mattino, iniziava la novena di Natale.
La brina la nebbia, il freddo pungente non ostacolavano la gente a recarsi in chiesa per la preparazione verso la festa principe dell'anno. Era una festa palpabile per l'esuberanza di noi bimbi smaniosi di arrivare a Natale con mille speranze nel cuore.
Eravamo nella civiltà contadina dove tutto lo si doveva conquistare con il lavoro e con la dedizione per una vita semplice, ma ricca di contenuti. A qui tempi non esistevano le case interamente riscaldate. L'unico locale riscaldato era la grande cucina dotata di una stufa economica e di un camino. Le serate passavano lente nelle nicchie dei vecchi camini a osservare il gioco allegro della fiamma che bruciava i vecchi ceppi di faggio.
Chi era fortunato aveva le prime stufe a nafta che riscaldavano meglio l'ambiente. Si conversava con i genitori, e si parlava del pranzo natalizio, composto da un ricco antipasto salame e prosciutto cotto, dal risotto alla milanese, con il brodo di manzo, dal lesso del cappone e dal manzo, e dal cappone arrosto. Il re del pranzo era il cappone, allevato in casa e nutrito dall'inizio di dicembre nelle apposite “caponere” solamente con il granoturco, per avere una carne perfetta. Era un rito quando si dava da mangiare ai capponi che attendevano il pasto molto agitati e litigavano tra di loro per poter ingurgitare di più. Il cappone era intoccabile per i pranzi di Natale e le cene di fine anno.
Quando si discuteva del pranzo del 25 dicembre a tutti si illuminavano gli occhi perché era una giornata speciale, quando tutta la famiglia era presente e si festeggiava. L'albero di natale lo si recuperava dal grosso pino rosso del nostro giardino, sacrificando un ramo della pianta. Anche il presepio che lo si faceva alla vigilia era molto semplice. Una capanna costruita da mio zio
Alfredo in tufo, con la scena della natività e pochi altri personaggi.
Erano momenti bellissimi dove i bimbi sognavano, e la gente era molto più disponibile che in altre circostanze. C'era il coro che noi ragazzi frequentavamo per la preparazione dei canti della messa di mezzanotte. Poi con il mio amico Mirko e suo padre Federico, si iniziava a costruire il presepio nella chiesa parrocchiale. Erano momenti indimenticabili, quando il parroco don Santino, osservava molto soddisfatto l'allestimento del presepe.
Tutti erano immersi nell'atmosfera natalizia e si fermavano dopo la funzione della novena a conversare piacevolmente. Noi ragazzi assaporavamo l'aria di festa e anche a scuola si preparavano i regali da portare ai genitori. Non era come oggi la corsa frenata ai supermercati per acquistare i doni, ma il Natale aveva un senso, quello della fratellanza dello stare insieme dell'amore per gli altri.
Quest'anno la pandemia ci priva di donare un fresco bacio a chi ogni giorno corre con noi sui sentieri della vita, a chi vogliamo testimoniare il nostro affetto. Siamo tutti mascherati e attenti a non diffondere questo maledetto virus che ha cambiato il nostro modo di vivere.
Ma Ticinesi non abbattiamoci, andiamo avanti compatti, perché a questo mondo tutta passa e speriamo che il prossimo anno debelli definitivamente questo modo di vivere insolito per una comunità come la nostra, fiera, libera, pronta a dedicarsi a chi ha bisogna di solidarietà e d'amore.
Buon Natale a tutti.