di Sam Genini, segretario agricolo cantonale
Il titolo di questo articolo si rifà a un noto brano di Lucio Dalla che potrebbe essere la colonna sonora per un tema in votazione il prossimo 25 settembre.
Sto parlando dell’iniziativa sull’allevamento intensivo che vuole stravolgere l’allevamento di animali da reddito in Svizzera, diminuendo drasticamente il loro numero e imponendo delle scelte di consumo alimentare alla nostra popolazione. Tutto ciò senza minimamente tenere in considerazione quanto le circa 50’000 famiglie contadine del nostro Paese stanno già facendo incessantemente per assicurare il benessere animale nelle loro stalle, oltre alla biodiversità, la salvaguardia dell’ambiente e la protezione delle risorse.
In Svizzera siamo all’avanguardia e negli ultimi 10 anni, grazie anche alla strategia federale «Contro le resistenze agli antibiotici», abbiamo ridotto del 67% gli antibiotici per l’allevamento animale (USAV, Rapporto sulla vendita di antibiotici e sulle resistenze agli antibiotici in medicina veterinaria in Svizzera 2019). Altresì da diversi anni gli antibiotici di tutte le classi di sostanze attive previsti per il trattamento profilattico di animali da reddito non possono più essere prescritti o dispensati per la scorta (art. 11 cpv. 3 lett. a OMVet). Pertanto spetta al veterinario decidere, sulla base di un’approfondita valutazione preliminare, se sia necessario un trattamento profilattico di uno o più animali prima che insorgano i segni clinici di una malattia, con l’intenzione di impedire l’insorgenza della malattia stessa (art. 3 OMvet) e in ogni caso devono essere prese anche altre misure per migliorare la salute degli animali, quali un'igiene migliore, l'ottimizzazione delle condizioni climatiche, vaccinazioni, ecc. Ogni utilizzo viene registrato in una banca dati, nella nostra agricoltura il principio è: «Antibiotici per curare: sì. Antibiotici per la profilassi: no». Questa è la realtà dei fatti, il resto solo fandonie. Niente di paragonabile all'utilizzo sistematico negli allevamenti intensivi in altri Paesi.
Le conseguenze di un'eventuale accettazione di questa iniziativa sarebbero chiare: diminuzione della produzione regionale, aumento dei prezzi, aumento delle importazioni e del turismo degli acquisti oltre frontiera e perdita di posti di lavoro, come dimostrato da studi indipendenti. Senza dimenticare che gli animali da reddito valorizzano oggi più di 400'000 t di sottoprodotti dell'industria alimentare, che invece andrebbero negli scarti causando un maggior spreco alimentare. Già oggi purtroppo generiamo all’estero il 75% della nostra impronta ambientale legata ai consumi e produciamo solo poco più del 50% del cibo consumato nel nostro Paese.
Non vogliamo che la nostra filiera agroalimentare venga messa in ginocchio, che l'auto-approvvigionamento venga minacciato e che lo Stato metta il naso nel piatto del cittadino. Per questa ragione è necessario respingere con un NO convinto quest’iniziativa.