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LUGANO«In carcere dire di sentirsi donna non basta»

31.07.24 - 06:30
Il direttore delle strutture carcerarie Stefano Laffranchini si esprime sulla gestione dei detenuti transgender.
Tipress
«In carcere dire di sentirsi donna non basta»
Il direttore delle strutture carcerarie Stefano Laffranchini si esprime sulla gestione dei detenuti transgender.

LUGANO - Si tratta di una questione complessa e delicata allo stesso tempo. Gli sforzi delle autorità cantonali per garantire la sicurezza delle persone transgender in situazione di detenzione (la categoria più a rischio di discriminazione al mondo secondo le Nazioni Unite) non devono sfociare nella stigmatizzazione o addirittura nella ghettizzazione. Un equilibrio che il direttore Stefano Laffranchini conosce bene.

Direttore, quali sono le difficoltà relative alla gestione delle persone transgender in carcere?
«Una persona dovrebbe sempre essere approcciata per come si sente. Ma in un contesto carcerario la questione è più complicata. Basarsi esclusivamente sui desideri o sulle percezioni di queste persone può creare disastri. Se, ad esempio, un carcerato eterosessuale di sesso maschile mi dice "mi sento donna", questo non è assolutamente sufficiente per collocarlo nella sezione femminile».

Quali misure vengono implementate per garantire la loro sicurezza?
«Abbiamo le nostre antenne. Nel carcere preventivo (Farera) il problema non sussiste perché gli incontri sono rari. Nel carcere chiuso (Stampa) abbiamo 150 persone, per cui è abbastanza semplice controllare e intervenire in caso di necessità. In sezione aperta poi (Stampino), dove abbiamo una quarantina di persone, la questione quasi non si pone. E se si pone, i detenuti vengono a dircelo».

Ci racconti di un caso specifico.
«Abbiamo avuto un caso di una persona di sesso maschile che, avendo cominciato una cura ormonale e sviluppato caratteri genitali secondari femminili, è stata collocata con le donne. Naturalmente si sentiva e si comportava da donna. Passava il tempo con le altre detenute solo durante le attività formative o professionali. Non avremmo mai potuto collocarla con altri detenuti, né di sesso maschile, né di sesso femminile. Ma bisogna stare attenti perché il rischio di questo approccio è la stigmatizzazione».

È giusto separare i detenuti in base al sesso?
«Il mio compito è quello di prepararli alla risocializzazione. Prendiamo l'esempio di una persona che passa 10 anni in carcere. Dopo aver scontato la sua pena ha disimparato ad approcciarsi all'altro sesso. Quindi le interazioni tra persone di sesso opposto sono da incentivare anche in contesti carcerari, ma chiaramente in maniera controllata. La linea di confine tra la risocializzazione e la prevaricazione è sottile. Vi sono situazioni a rischio e vanno controllate».

E creare una sezione per sole persone transgender?
«Da una parte si andrebbe a tutelare in modo assoluto la loro identità di genere. Ma dall'altra, una struttura del genere, si trasformerebbe in un ghetto. È dunque importante insegnare il rispetto reciproco indipendentemente dal genere».

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