Roberta Passardi, deputata PLR in Gran Consiglio
LUGANO - Di strada le donne nel 20esimo secolo e anche in questo scorcio di 21esimo secolo ne hanno fatta e sicuramente nuovi importanti traguardi dovranno essere raggiunti.
La questione del congedo parentale, per come è stata "confezionata" che affronteremo nel prossimo Gran Consiglio, pone qualche perplessità per come è stata formulata.
Una premessa è d'obbligo. Da quando la nostra società ha visto crescere in modo esponenziale i singles, tanto che oggi sono la metà della collettività, ecco che la politica di tutti i partiti, in primis sinistra e Ppd, ha trasformato la categoria sociale della famiglia (in oggettivo declino numerico nella società), in un "totem" su cui incentrare tutta la politica sociale. Dal 1995, dalla riforma di Pietro Martinelli sugli assegni famigliari, è stato un crescendo continuo, con aumenti di deduzione fiscale per i figli, con aiuti in ambito di cassa malati per i minori, ecc. L'aumento oggettivo della spesa sociale non ha prodotto che le persone fanno più figli, anzi.
Il metodo liberale, che anche il mio partito a volte disattende, obbligherebbe che dopo un certo numero di anni dall'introduzione di nuovi strumenti di politica sociale, si facesse un'attenta analisi per verificare se i nuovi strumenti sociali e finanziari hanno prodotto i risultati auspicati o meno. Mai una volta che si faccia un'analisi dell'efficienza e soprattutto dell'efficacia delle nuove misure attuate, nell'ambito sociale, come in qualsiasi altro ambito.
Ora continuare "dogmaticamente" a sostenere che bisogna creare nuovi strumenti di politica sociale, senza nessuna attenta analisi e verifica di quello fatto finora, rischia di essere addirittura controproducente.
La Svizzera fino a pochi anni fa, ha sempre avuto un approccio pragmatico nei diritti sociali. I pomposi proclami idealistici non fanno parte della nostra Storia. La proposta così formulata e senza una visione globale di tutti gli interessi in campo, rischia di tramutare la discussione sul congedo parentale in una “italianizzazione" della nostra politica, dove si punta tutto su roboanti proclami, ma che nella prassi concreta trovano il tempo che trovano.
Il congedo parentale così come viene proposto, ritengo che arrischi seriamente di portare più danni alle donne che benefici.
Come si fa a pensare, che in una realtà economica come quella ticinese, tutta incentrata sulle PMI, un datore di lavoro o una datrice di lavoro, possano "privarsi" di una, due o addirittura tre collaboratori/trici in congedo parentale, (che nel caso di donne va sommato al congedo di maternità), mettendo seriamente in difficoltà l'operato della propria piccola impresa?
La prassi sarà, che al momento dell'assunzione, molti datori di lavoro terranno presente se la neoassunta (o il neoassunto) è in età fertile o meno.
Per inseguire un ideale di maggiori diritti, si arrischia che nella prassi aumenti il livello discriminatorio.
La strada delle politiche di conciliazione tra famiglia e lavoro è un'altra e passa per una seria di strumenti per sostenere l’organizzazione del lavoro e conciliare le esigenze delle imprese con le esigenze delle persone.
D'altronde il termine "flexicurity" l'hanno inventato i socialdemocratici scandinavi, non io. E non si può vedere solo un lato della politica sociale scandinava (quello che maggiormente piace per legittimare le proprie battaglie politiche), ma bisogna vedere anche l'altro. In Europa sono proprio i Paesi scandinavi, (quelli membri Ue, ma anche la Norvegia che ne è fuori), che hanno la maggior percentuale di contratti part time.
Inoltre sarebbe ora, che qualcuno aprisse un dibattito non solo sui nuovi diritti, sociali e non, ma anche i suoi corrispettivi doveri e responsabilità.
Il colmo è, che non è stato un liberale, bensì un socialista come il leader del Labour Party Tony Blair (non a caso molto apprezzato dall'esponente liberale più importante in Europa nel dopoguerra, Ralph Dahrendorf) a metà anni '90 a tematizzare che più diritti, più Welfare doveva corrispondere a più responsabilità e doveri. Blair e il suo "ideologo" Anthony Giddens (teorico della famosa "terza via", ma che in gioventù ha avuto qualche simpatia addirittura per idee trozkiste), hanno iniziato a teorizzare che la spesa sociale, soprattutto per le giovani generazioni deve essere vista come investimento, ma proprio per questo ad un'implementazione del Welfare, doveva esserci anche il concetto di "malus", proprio per rendere più efficiente, ma soprattutto efficace l'aiuto dello Stato. Perché se da una parte lo Stato aumenta la spesa, ciò viene perseguito in un'ottica di investimento sociale, che dovrà far diminuire altre spese dello Stato.
Detto in altri termini, se si aumenta la spesa sociale per i giovani e i loro genitori, se si aumenta la spesa nella formazione e nell'educazione, non è per creare degli eterni "passivi" che stanno una vita a carico del Welfare; senza nulla togliere a quei casi realmente problematici.
Per far ciò è essenziale il concetto di responsabilità e doveri, non solo rivendicare in continuazione nuovi diritti.
Ricordiamoci che quando un liberale (e non un socialista), come William Beveridge nel 1903 teorizzò e inventò in Gran Bretagna il Welfare State, ciò non era basato su un dogmatico idealismo, ma su un più efficace funzionalismo sociale. Dunque, oggi, abbiamo bisogno come liberali di tornare alle nostre origini. Basta con teorie dogmatiche e idealistiche e un più sano pragmatismo politico che sappia coniugare diritti con responsabilità e con un adeguato funzionalismo della società, che non può fare astrazione dell'economia.