I processi contro Aung San Suu Kyi non sembrano lasciarle alcuna via d'uscita. Ne parliamo con due esperti.
La leader birmana è accusata, tra le altre cose, di corruzione, violazione di segreti di stato e possesso illegale di walkie-talkie. Uno sguardo alla situazione con l'analista Richard Horsey e l'attivista di Amnesty International Zaw Tun.
NAYPYIDAW - Di sicuro - citando lo storico titolo, a firma di Tommaso Besozzi, con cui l’Europeo apriva la sua edizione settimanale del 16 luglio 1950 - c’è solo che non si sa come andrà a finire. La cornice in questo caso non è però quella di un cortile di Castelvetrano, ma siamo in Myanmar, una terra che da quasi cinque mesi è alle prese con un violento colpo di stato militare.
Una violenza che ci viene raccontata, quasi in tempo reale, dalle cifre impietose che l’Assistance Association for Political Prisoners aggiorna, giorno dopo giorno, sulla propria pagina web. Arrivati al 24 giugno, sono 880 i corpi lasciati a terra senza vita dal fuoco delle armi impugnate dal Tatmadaw, l’esercito birmano. Più di 5’000 persone si trovano invece agli arresti e una di queste è Aung San Suu Kyi, Consigliera di Stato destituita e leader della Lega Nazionale per la Democrazia, intrappolata da una catena di accuse che sembrano pesare sulle sue spalle come fossero già sentenze.
La accusano di corruzione, violazione di segreti di stato e delle leggi sull’importazione e le telecomunicazioni per possesso illegale di walkie-talkie. Tre addebiti che da soli potrebbero costarle più di trent’anni di carcere, rimuovendola de facto in modo permanente (Suu Kyi ha da poco compiuto 76 anni, ndr.) dalla scena politica nazionale. Si può parlare di processi a orologeria? Diciamo pure che tra la popolazione, largamente schierata al fianco dell’ex premio Nobel per la pace, prevale la convinzione che le imputazioni siano state imbastite utilizzando un filo di una fibra prettamente politica, come ci viene confermato da Zaw Tun, attivista di Amnesty International che ben conosce la realtà birmana. «È difficile in questo momento prevedere cosa potrà succedere, ma la situazione è di certo preoccupante».
Tra chi stringe il Paese e chi vuole stringersi alla democrazia
La popolarità della leader birmana in patria - il 79% della popolazione, secondo un sondaggio effettuato l’anno scorso dalla People's Alliance for Credible Elections, ha affermato di riporre la propria fiducia in Suu Kyi - ha oliato in questi mesi la “macchina” della disobbedienza civile nel Paese asiatico, avviata all’indomani del golpe da chi non intende, proprio sul più bello, rinunciare alla democrazia. Una forza contraria che non ha permesso al regime di serrare del tutto la propria morsa. E «probabilmente la giunta militare non si attendeva una risposta di questa intensità da parte della popolazione», dice dall’altro capo del telefono, e del pianeta, il nostro interlocutore.
Tutti questi processi, rigorosamente a porte chiuse, potrebbero quindi essere inquadrati in una cosiddetta "logica del fango": prima il dubbio, poi la crepa. Un tentativo finalizzato a screditare la figura di Suu Kyi di fronte ai suoi sostenitori? «Sì, questa potrebbe essere una delle ragioni. Si pensi in particolare all’accusa di corruzione che le è stata rivolta. Va però detto che la popolazione birmana dà pochissimo credito a questi addebiti e non ripone alcuna fiducia nel funzionamento di questo sistema, che è ora completamente nelle mani del regime militare». In altre parole, per quanto il fango possa apparire denso, non sembra comunque in grado di accecare la vista del popolo. Al contrario, con ogni probabilità «i processi motiveranno la popolazione a continuare le proteste - prosegue Zaw Tun -. Anche perché la repressione purtroppo andrà avanti. E quindi alla popolazione non rimane alternativa se non quella di abbracciare la via della resistenza... Non hanno scelta». E nel dirlo, la sua voce calma tradisce un filo di sconsolatezza.
«Non ha alcuna possibilità di essere assolta»
La prospettiva che queste eventuali condanne possano fungere da innesco a nuovi scontri è condivisa anche da Richard Horsey, esperto analista politico dell’International Crisis Group. Ma dalle parti di Naypyidaw la cosa potrebbe già essere stata messa in conto. «A quasi cinque mesi dal colpo di stato, la giunta militare del Myanmar sta ancora faticando nell’imporre il proprio comando sul paese. Allo stesso tempo però la resistenza, nonostante mantenga la sua popolarità, non è stata in grado di sferrare alcun colpo decisivo contro il regime», ci spiega. «Le accuse rivolte a Suu Kyi sembrano mirate a tenerla imprigionata a tempo indeterminato. E il regime ha probabilmente calcolato di essere in grado di fronteggiare i disordini che queste accuse, e la sua inevitabile condanna, andranno a scatenare». E sulla possibilità che la leader birmana possa essere liberata Horsey è categorico. «Il regime non ha dato il via a un autentico processo legale. Piuttosto, la sua intenzione è quella di assicurarsi una giustificazione legale - per quanto farsesca - per tenere Suu Kyi sotto chiave. Non esiste alcuna possibilità che possa essere assolta».
Tutto lascia quindi pensare a un braccio di ferro prolungato anche al prossimo futuro, in cui nessuna delle due mani sembra vicina a toccare la superficie del tavolo. E non solo ovviamente per Suu Kyi, ma per quei «milioni di persone che sono, di fatto, tenute in ostaggio dal momento del golpe», come sottolinea Zaw Tun di Amnesty, la cui preoccupazione non è rivolta solo all’escalation di violenza, ma anche all’erosione dei diritti umani che ne sta derivando, con centinaia di migliaia di persone sfollate - si stima siano circa 200’000 solo dall’inizio del golpe - e l’ostruzionismo operato dal regime per ostacolare gli aiuti umanitari.
Un'azione esterna? Le opzioni sono poche
Al di fuori dei confini del Myanmar però il margine di manovra per intervenire sulla situazione è assai ristretto. L’Unione europea ha da poco varato un terzo ciclo di sanzioni contro alcuni alti ufficiali dell’esercito birmano, ma gli effetti di queste misure restrittive nel concreto sono limitati. «Il mondo esterno - conferma Horsey - dispone di poca influenza sui generali del Myanmar. Le sanzioni hanno certamente un valore simbolico importante, ma non costringeranno il regime ad alcun ripensamento. E non lo faranno probabilmente neanche il dialogo o i tentativi di persuasione da parte degli altri Paesi vicini. A meno che non venga attuata un’azione coordinata da parte del Consiglio di Sicurezza (delle Nazioni Unite, ndr.) - che però è impedita dal veto posto da Cina e Russia - o che una forza, regionale o globale, decida di intervenire, ci sono poche alternative per spingere l’esercito su una strada diversa».