Si celebra oggi il 75° anniversario della liberazione di Auschwitz. La responsabile della fondazione elvetica Gamaraal: «Siamo in una fase critica»
ZURIGO - A 75 anni esatti dalla liberazione del lager nazista di Auschwitz, si celebra oggi un Giorno della Memoria speciale, segnato, già la settimana scorsa, da celebrazioni particolarmente solenni in Israele.
In occasione di questa ricorrenza che ricorda gli oltre sei milioni di vittime dell'Olocausto (per la maggior parte ebrei ma anche rom, sinti, disabili, omosessuali e testimoni di Geova), abbiamo intervistato Anita Winter, presidente della fondazione per la conservazione della memoria e il sostegno dei sopravvissuti allo sterminio nazista Gamaraal, con sede a Zurigo.
Signora Winter, perché questo 75° anniversario della liberazione di Auschwitz è così importante?
«È una ricorrenza speciale perché il mondo è consapevole che si tratta di uno degli ultimi momenti della storia in cui anche i sopravvissuti sono presenti alle celebrazioni. È una fase molto sensibile perché non potremo mai sostituire chi ha visto con i propri occhi quanto successo. La mia generazione e quelle successive dovranno trovare il loro modo di raccontare e hanno la responsabilità di continuare a trasmettere questa memoria affinché quanto successo non si ripeta».
Il 19 gennaio scorso la presidente della Confederazione Simonetta Sommaruga ha ricevuto a Berna i sopravvissuti dell'Olocausto provenienti da tutte le parti della Svizzera (alcuni non hanno potuto partecipare all'incontro per motivi di salute o legati all'età). Che cosa ha significato per loro questo incontro?
«Per i sopravvissuti è stato un riconoscimento e un attestato di rispetto grandissimo. Hanno detto di essersi sentiti incredibilmente toccati».
Come vivono il loro ruolo di testimoni i sopravvissuti?
«Per loro è estremamente importante testimoniare. Mi dicono spesso che parlano per i sei milioni di persone che non possono più parlare perché non ci sono più. Lo sentono come un obbligo e una responsabilità. Sono molto riconoscente con i sopravvissuti per il fatto che condividano con noi le loro storie».
È impegnativo per loro?
«Sì. Molti di loro mi raccontano quanto sia impegnativo raccontare le loro storie di vita nelle scuole e nelle università. Per loro è come rivivere tutto. Inoltre, è difficile trasmettere delle esperienze che si possono tradurre in parole solo a fatica. Tuttavia, lo sentono come un obbligo perché è importante che le generazioni successive sappiano riconoscere l’inizio di un’epoca senza diritti umani e sappiano cosa voglia dire viverci. Deve essere un monito sulle gravi conseguenze che il razzismo e l’antisemitismo possono avere».
Quanti sopravvissuti all’Olocausto vivono tuttora in Svizzera?
«Ci sono ancora sopravvissuti in tutte le parti della Svizzera. Stimiamo che siano tra le 400 e le 600 persone e alcuni di loro vivono anche in Ticino».
Per questioni anagrafiche, purtroppo, i sopravvissuti saranno sempre meno nei prossimi anni. Quanto sono impegnati i loro figli e i loro nipoti in questo compito di trasmissione della memoria?
«Varia da persona a persona, ma, come dico spesso, finché la prima generazione è ancora tra noi non c’è niente di più impressionante che poter ascoltare un sopravvissuto. Noi della seconda generazione, non potremo mai sostituirli perché hanno vissuto e visto tutto con i propri occhi».
Con la Fondazione Gamaaral organizzate anche molti incontri nelle scuole. Quando incontra i più giovani, si sente più ottimista o più pessimista rispetto alla loro capacità e al loro interesse di conservare la memoria dell’Olocausto?
«Sono davvero molto ottimista perché rimangono così toccati quando ascoltano i sopravvissuti. Abbiamo fatto molti incontri molto affollati nelle scuole e abbiamo avuto molti visitatori alla nostra mostra ed è interessante vedere in particolare come molti giovani con passato migratorio reagiscano in modo molto particolare. Restano molto colpiti dalla resilienza dei sopravvissuti, che hanno vissuto le cose peggiori, ma, più tardi nella loro vita, sono riusciti a ritrovare la felicità».
Che cos’altro li colpisce?
«Un’altra cosa che colpisce i giovani è scoprire che i sopravvissuti avevano la loro età quando hanno vissuto quello che hanno vissuto e che i loro genitori avevano l’età che hanno adesso i loro stessi genitori. È il caso del Signor Fishel Rabinowicz di Locarno, per esempio, che ha condiviso la sua storia con noi (qui il suo racconto). Aveva circa 15 anni quando è stato deportato mentre i suoi fratelli e sorelle avevano fra i 3 e i 16 anni quando sono morti ad Auschwitz. La madre è deceduta a 42 anni sempre ad Auschwitz e il padre è stato ucciso a Flossenbürg a 46».
E qual è la sua storia personale? Che cosa la spinge a impegnarsi nella conservazione della memoria della Shoah?
«I miei genitori sono entrambi nati in Germania prima della Seconda guerra mondiale. Mio padre, Walter Strauss, nel 1922 a Heilbronn e mia madre, Margit Fern, nel 1934 a Norimberga. Fin da piccola mi hanno insegnato che non bisogna mai dimenticare. Mi hanno fatto capire quanto fosse importante che quanto successo non si ripetesse e che era necessario iniziare a combattere già dalle prime avvisaglie di certi cambiamenti, non quando ormai è troppo tardi. I miei genitori hanno avuto la fortuna di poter iniziare una nuova vita in Svizzera e siamo molto riconoscenti a questo Paese. Io non ci sarei se non fosse per la Svizzera. (“Dem Tod entronnen”, “Sfuggiti alla morte”, scritto dal figlio della Signora Winter, Gadi Winter, racconta la storia di Walter Strauss e Margit Fern. La prefazione è dell’ex consigliera federale Ruth Dreifuss, ndr)».