Erika Franc, biologa, I Verdi, Bellinzona
Il 7 marzo siamo chiamati alle urne per esprimerci sull’accordo di libero scambio con l’Indonesia. Il punto in discussione di questo accordo è principalmente la facilitata importazione dell’olio di palma.
La premessa è la seguente: un accordo di libero scambio serve per favorire lo scambio di merci. Dunque la richiesta dell’olio di palma a basso costo ha buone probabilità di aumentare. E ciò andrà a scapito di alternative meno impattanti prodotte localmente.
C’è chi ritiene che bisogna accettare questo accordo perché contiene almeno un accenno dei criteri per la produzione sostenibile e che questo costituisca già un passo nella giusta direzione. Ma un passo non basta per un cambiamento sostenibile. I criteri di produzione elencati purtroppo non sono vincolanti, né controllati e non esistono meccanismi di sanzioni efficaci nel caso in cui essi non vengano rispettati.
Il problema è che per la produzione dell’olio di palma viene abbattuta la foresta tropicale. Le foreste tropicali vengono denominate “i polmoni della nostra terra” perché sono – se intatte - gli ecosistemi più importanti nella regolazione del clima in quanto sono in grado di accumulare grandi quantità di CO2.
Una recente pubblicazione nella rivista Nature Climate Change di un gruppo di ricerca della piattaforma Global Forest Watch dimostra che la foresta tropicale del sud-est asiatico è passata però nel corso degli ultimi vent’anni da importante accumulatore di CO2 a una netta fonte d’emissione di CO2 a causa delle importanti opere di deforestazione e altri deterioramenti della foresta effettuati, in gran parte per la coltivazione dell’olio di palma.
Il fatto è: l’olio di palma sostenibile non esiste. Se vogliamo veramente un cambiamento di sistema – e non del clima – dobbiamo respingere questo accordo.