Il punto su ciò che potrebbe riguardarci, a confronto con il racconto di chi vive sull'isola: «Noi costretti ad andarcene».
LAMPEDUSA / CHIASSO - Nel ribadire che l’emergenza migranti è questione europea, la premier italiana Giorgia Meloni ha ricordato ieri a Lampedusa che gli afflussi record sull’isola – 12 mila in meno di una settimana - presto riguarderanno da vicino anche i paesi confinanti.
Un’allerta che potrebbe dunque già interessare anche il Ticino?
«Attualmente non c’è una pressione aumentata sulla dogana a Chiasso, inclusa quella ferroviaria – riferisce chi si occupa di migrazione, tra Lombardia e Ticino – I migranti che oggi si trovano a Lampedusa verranno prima trasferiti in Sicilia (Pozzallo e Porto Empedocle, ndr) e occorreranno giorni prima che possano raggiungere il nord Italia».
Ma non solo, «quelli approdati a Lampedusa sono per lo più migranti subsahariani che cercheranno di arrivare in Francia, Germania e Europa del nord. E la Svizzera non è meta di flussi illegali ma per lo più di richiedenti asilo, come siriani, afghani, iraniani, turchi, iracheni e poi c’è chi arriva dal Maghreb».
Ma è, in parte, una questione di tempo.
«Certo, ad ottobre uno stato emergenziale e di pressione aumentata potrebbe ripresentarsi nuovamente ai confini tra Italia e Svizzera, anche perché la Confederazione, con i controlli sistematici francesi a Ventimiglia e in Austria, resta la principale via per raggiungere il nord».
E a questo proposito, oggi è arrivato il secco no ad accogliere chi è sbarcato in Italia da parte del ministro dell’Interno francese Gérald Darmanin («facciamo già ampiamente la nostra parte»), mentre dall’Austria fanno sapere di voler aumentare i controlli alla frontiera del Brennero.
Lampedusa, tra rabbia, ansia e impotenza.
Nel frattempo, al di là della solita querelle politica, chi sta vivendo ininterrottamente da 30 anni il fenomeno migratorio, sono i lampedusani.
«Siamo ansiosi, stanchi, arrabbiati. Non riusciamo più a sopportare uno scenario tragico con barchini che si ribaltano, neonati che muoiono. In estate gli sbarchi ci sono stati ma poi tutto è degenerato: negli scorsi giorni in 48 ore sono arrivate 8 mila persone e noi residenti siamo poco più di 6 mila. Come possiamo affrontare questa situazione da soli?».
Sono le parole di una donna lampedusana che si occupa di turismo e insieme al marito pescatore («Lui non può parlare adesso, è in mare sul peschereccio») conosce a fondo il «cuore della gente dell’isola».
La donna, che è anche mamma e nonna, accetta di parlarne al telefono, seppur mantenendo l’anonimato.
«Viviamo su un’isola militarizzata, piena di mezzi di polizia e viviamo questi giorni in uno stato di allerta mista a impotenza, in sit-in continuo sotto il Comune, perché non vogliamo sia allestita qui anche una tendopoli».
Lampedusa è da sempre il primo approdo europeo per chi si imbarca da Tunisia e Libia.
«È iniziato tutto 30 anni fa con piccole barche, singole persone che si fracassavano sugli scogli pensando di essere in Sicilia. Bagnati, scalzi e affamati raggiungevano il centro del paese. Poi però tutto è passato nelle mani di commercianti senza scrupoli, che si riempiono le tasche con la tratta di esseri umani».
Dopo tanti anni di esperienza diretta con gli sbarchi, quali le soluzioni possibili secondo i lampedusani?
«È un problema che va studiato a fondo: l’Africa è un continente ricco di risorse e materie prime ma è depredato da multinazionali che si limitano a sfruttare i territori che li ospitano, in una logica predatoria e di profitto. Tutto ciò va cambiato perché queste persone vanno aiutate là e vanno capite, perché nessuno vorrebbe mai lasciare la propria terra».
Insieme alle prime proteste dei suoi compaesani, hanno fatto il giro d’Europa le immagini di migranti in coda che aspettano cibo, acqua e persino gelati, offerti dalla gente del posto.
«Stiamo facendo più di tutti, ci stiamo prodigando. Insieme alla Chiesa, abbiamo messo a disposizione di donne e bambini la Casa della fraternità. Facciamo la spesa, oltre che per noi, anche per loro: compriamo prodotti per l’igiene, assorbenti femminili, pannolini e poi generi di prima necessità come latte, biscotti, succhi di frutta. C’è chi compra bottiglie d’acqua e le distribuisce per strada a chi ne ha bisogno».
Una solidarietà condivisa con l’intera comunità.
«La sera della fuga dall’hotspot sovraffollato, i ristoratori hanno cucinato pasta e sfornato centinaia di pizze. La parrocchia ha aperto le porte della chiesa, ha messo a disposizione la propria cucina, i bagni».
Impressiona vedere, ormeggiate in porto, decine di barche arrugginite, colme di camere d’aria che fungono da salvagente, accanto a imbarcazioni turistiche.
«Queste barchette di lamiere di ferro arrugginite sono comparse ora a decine. Ma è impossibile arrivare dalla Tunisia e attraversare il mare in queste condizioni. È chiaro che ci sono barche madri più grandi che le trasportano e le mettono in acqua dopo aver affrontato già un primo tratto della traversata».
C’è chi dice che il porto sia ostruito dalle imbarcazioni dei migranti e che l ‘attività della pesca sia in difficoltà.
«Non è così, la pesca viene meno per motivi politici e naturali: i pescherecci tunisini arrivano fino sotto alla nostra costa; di notte vediamo le loro luci, mentre le nostre imbarcazioni non possono fare altrettanto, pena il rischio di vedersi sequestrato il peschereccio dalle autorità nordafricane. Il mare poi è sempre meno pescoso».
Le immagini che arrivano dall’isola in questi giorni non sono uno spot per chi vorrebbe passare le vacanze da voi.
«Viviamo di pesca e turismo. E d’inverno, non potendo pescare, viviamo di quanto racimolato con il turismo d’estate. Certo, nonostante tutto abbiamo lavorato anche quest’anno ma gli albergatori denunciano un rallentamento ad agosto e c’è chi è esasperato».
In tutto questo, cosa chiedono i lampedusani?
«Pretendiamo uguaglianza, perché i migranti hanno la priorità sugli abitanti. Dopo lo sbarco, ad esempio, arrivano a ondate al pronto soccorso e noi, in caso di bisogno, arriviamo sempre dopo. Chiediamo poi che si fermino le partenze, anche con l’impiego di navi in mare. Che si proceda alla bonifica e alla pulizia dell’intera area. E poi diciamo no alla tendopoli: che l’isola non sia più militarizzata, altrimenti non ci resterà che andarcene».