L'uccisione del leader qaedista apre la sua successione. Il nome "gettonato" dagli analisti è quello di Saif al-Adel.
Nel frattempo, Stati Uniti e talebani si accusano reciprocamente di aver violato l'accordo siglato a Doha nel 2020. Accuse autentiche o di facciata?
KABUL - «Non eravamo rimasti d'accordo così». Devono averlo pensato tanto a Washington quanto a Kabul, nei momenti - mesi da una parte, qualche ora dall'altra - che hanno fatto da cornice all'operazione, chirurgica, con cui gli Stati Uniti hanno eliminato il leader di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri. Perlomeno in apparenza.
Il presidente statunitense Joe Biden l'ha definita la chiusura di un cerchio. Una dose di «giustizia», «somministrata» nei confronti dell'uomo che stava al fianco di Osama Bin Laden - e da cui ha raccolto il testimone dopo la sua uccisione, nel maggio 2011, in Pakistan - nel pianificare gli attacchi più cruenti - su tutti, quelli dell'11 settembre - condotti da quello che è stato, a cavallo tra la fine degli anni '90 e i primi 2000, il principale conglomerato della jihad a livello globale.
«Il mondo è un luogo più sicuro dopo la morte di al-Zawahiri», si legge in una nota pubblicata dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. La firma è quella del Segretario Antony J. Blinken, che dedica parte delle sue dichiarazioni a un nodo evocato, contestualmente, anche dai palazzi dell'Emirato islamico dell'Afghanistan - ossia, per i meno avvezzi alla geopolitica del luogo, i talebani - e che possiamo sintetizzare nella forma di quesito: chi ha violato l'accordo di pace di Doha?
Indici incrociati tra Washington e Kabul
Americani e talebani, senza grandi sorprese, puntano i rispettivi indici gli uni contro gli altri. Da Kabul, l'Emirato condanna l'accaduto. In una nota pubblicata su Twitter, il portavoce talebano Zabihullah Mujahid parla di «una chiara violazione dei principi internazionali dell'accordo di Doha. Tali azioni sono la ripetizione delle esperienze fallite degli ultimi vent'anni e si pongono in contrasto rispetto agli interessi degli Stati Uniti, dell'Afghanistan e della regione». Una decina scarsa di righe, in cui trova spazio anche il monito rivolto a Washington - «ulteriori azioni di questo genere andrebbero ad arrecare danno alle possibilità» di collaborazione - ma non il nome del leader di al-Qaeda.
Più mirati e circostanziati sono invece i biasimi che Blinken indirizza verso il regime talebano, ponendo sulla bilancia anche il fattore "tradimento". «Offrendo rifugio al leader di al-Qaeda a Kabul, i talebani hanno violato gravemente l'accordo di Doha e le reiterate assicurazioni, a tutto il mondo, che non avrebbero consentito ad alcun terrorista di utilizzare il territorio afghano per minacciare la sicurezza di altri Paesi. E hanno così tradito anche la popolazione afghana e il loro stesso, e dichiarato, desiderio di riconoscimento di fronte alla comunità internazionale». E sulla spinta fornita dalla «riluttanza o incapacità dei talebani» di rispettare i propri impegni, il Segretario di Stato mantiene sulla "corsia di sorpasso" gli Stati Uniti che intendono «continuare a sostenere la popolazione afghana» e «i loro diritti umani».
Morto al-Zawahiri. Chi dopo di lui?
Se questa "singolar tenzone" di accuse è l'inizio di una nuova escalation o se invece scemerà in sottofondo, lo dirà solo il futuro. Nel frattempo, è interessante tornare sulla figura di al-Zawahiri e sul vuoto che il medico egiziano lascia in seno al "gotha" di al-Qaeda. Perché la sua eliminazione è foriera di quesiti. A partire da chi erediterà le redini dell'organizzazione, che secondo gli analisti sarebbero destinate alle mani dell'ex colonnello egiziano Saif al-Adel; anch'esso un veterano della jihad e delle pagine dei ricercati dell'FBI, con tanto di taglia a sette zeri sulla testa.
Nel suo "curriculum" figurano gli attentati alle ambasciate americane in Tanzania e in Kenya nell'agosto del 1998. Saif al-Adel si troverebbe in Iran, «ospite del regime di Teheran», scrive l'esperto Nathan Sales in un'analisi pubblicata oggi dal think tank americano Atlantic Council. E precisa: «Teheran e al-Qaeda hanno fatto fronte comune negli ultimi anni contro il loro nemico (gli Stati Uniti, ndr.). Dobbiamo tenere un occhio aperto su quale sarà la loro relazione se, come atteso, Saif salirà al vertice di al-Qaeda».
Resta in ogni caso difficile dire, per ora, cosa questo possa significare in termini operativi per l'organizzazione jihadista. Sappiamo che questa ha mantenuto i legami con i propri alleati, talebani in primis - come sembra dimostrare il fatto che il suo leader vivesse con la famiglia in una zona residenziale di Kabul; una circostanza che è difficile anche solo da ipotizzare senza premettere l'approvazione dell'Emirato -, ma pure che non sembra più in grado di condurre le operazioni su vasta scala del passato.
Indipendentemente da quale sia l'attuale "stato di salute" di al-Qaeda, la morte di al-Zawahiri - più stratega e ideologo che leader carismatico - è indubbiamente un duro colpo da assorbire. Il drone americano che lo ha messo nel mirino, domenica mattina, è stato, come detto, chirurgico. Il leader qaedista sarebbe stato colpito sul balcone di casa. Ma gli interrogativi su come si sia arrivati a chiudere il cerchio su di lui, dopo tanti anni, rimangono. E bene li sintetizza Norman Roule, ex funzionario della CIA e tra le firme del documento pubblicato dall'Atlantic Council. «L'uccisione è stata il risultato di decenni di ricerca? È stato tradito dai talebani, che puntavano alla ricompensa o al sostegno americano per recuperare i beni afghani congelati? Zawahiri ha autorizzato operazioni che hanno falle, da cui è stato possibile risalire alla sua posizione? E da quanto si trovava in quel luogo? Le risposte ad alcune di queste domande - sottolinea Roule - non saranno mai di pubblico dominio».