A tu per tu con Oleg Mandić, sopravvissuto al campo di sterminio: «L'essenziale è parlare di questa storia fino all'ultimo respiro»
La sua vita è ancora funestata dall’ombra lunga di Birkenau. Da quella “cloaca” è stato sì possibile uscirne vivi, ma solo per il suo corpo, perché lo spirito, quello, è rimasto e sempre rimarrà laggiù, alla mercé di seviziatori corrotti e assatanati. L’uomo che ha visto l’“altro” mondo e varcato le porte dell’inferno si chiama Oleg Mandić, è nato in Italia ottantanove anni fa, ed è l’ultimo bambino a essere uscito vivo dal campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. L’orrore della sua sofferenza ha tuttora l’effetto di una carezza ruvida come carta vetrata: «Birkenau mi sembrava un enorme mostro con la mascella aperta incapace di selezionare le sue vittime. Eppure, se ho avuto una vita meravigliosa, è stato tutto grazie a quel triste cimitero vivente!».
Che cosa significano i 78 anni della Liberazione del Campo per l’ultimo bambino che chiuse i cancelli di Auschwitz?
«Una tristezza, perché è chiaro che non sono bastati tre quarti di secolo per rimuovere dalla mente di molti dottrine razziste e naziste. Non mi illudo che tali barbarie non possano succedere più. Si ripeteranno sistematicamente, nonostante me e tanti altri come me. L’essenziale però, è che quelli come me, scampati al lager, parlino della loro storia fino all’ultimo respiro, perché la memoria è ricostituzione del passato e, come tale, deve essere sorgente di comprensione e correzione di ciò che è stato».
Lei non è un sopravvissuto qualunque!
«No, mio nonno era collaboratore stretto di Tito. Le truppe sovietiche dell’Armata Rossa vennero a prendermi su ordine di Stalin proprio per questo».
Negli anni della pandemia, abbiamo sentito più che mai utilizzare termini quali Shoah sanitaria e governativa. In men che non si dica è stato creato poi un diffuso negazionismo associato ripetutamente a quello dello Olocausto. A lei la parola.
«Se in tempo di Covid a far soffrire è stata la privazione della nostra libertà, durante gli anni dell’Olocausto a tormentare noi deportati, rinchiusi in campi di concentramento senza poter avere accesso all’esterno, era più che altro il non poter governare autonomamente la nostra vita. Naturalmente questa correlazione psicologica decade all’istante quando si parla dei campi di sterminio, laddove quotidianamente venivano assassinati bestialmente decine di migliaia di internati. In quelle città invisibili la privazione della libertà era l’ultimo dei pensieri, poiché il primo si traduceva nella disperata speranza di svegliarsi vivi il giorno dopo. Di negazionismo, invece, non ne voglio parlare: trattasi di assurdità lanciate da estremisti malintenzionati».
Un giorno ha deciso di ritornare ad Auschwitz. Perché?
«La prima volta ci tornai nel 1969. Lo promisi alla mamma che morì in un incidente d'auto proprio quell’anno. Le altre dodici volte lo feci per “ragioni psicoterapeutiche". La gente comune in periodi di crisi consulta lo psicoanalista, io invece torno ad Auschwitz! Solo lì riesco a riattraversare sentieri e ricordi di settanta e rotti anni fa, e a ricontattare le riflessioni di chi, come me, ha avuto la fortuna di farcela. A quel punto torno a casa persuaso dall’idea che la vita è bella e che vale la pena di essere vissuta. Lo penso anche ora; d’altra parte in questi tempi bui tocca a noi prenderci per mano».
Quanto le rimane ancora addosso dell’odore di Birkenau?
«L'unico fetore che non dimentico è quell’orribile puzzo di carne umana bruciata, intrisa di miasmi, provenienti dal camino dei crematori. Nei sette mesi in cui fui prigioniero ad Auschwitz non vidi mai un passero. Gli uccellini non sono stupidi. Come avrebbero potuto svolazzare in quella triste catacomba, dove il manto di denso, nefando e oleoso fumo dai camini copriva perfino la luce del sole?».
Che ricordo ha del folle dottor Mengele, il cosiddetto “Angelo della morte”?
«Josef Mengele era famoso per aver pilotato migliaia di esperimenti genetici sui bambini del Campo. All'epoca nessuno, neppure il sottoscritto, sapeva cosa si nascondesse dietro le quinte della sua sezione. Ciò che era noto però, è che costui era assillato dallo studio del DNA dei fratelli gemelli: quando se ne andavano dal dipartimento non tornavano mai. Il “dottor morte” era un uomo – se così si può chiamare – serio ed educato. Suscitava persino simpatia. Era rasato e indossava una impeccabile, stirata divisa militare da ufficiale SS».
Che cosa fu a salvarla con certezza?
«Per un buon 80% fu la fortuna. Il restante 15% lo attribuisco all’amore di mia madre e il 5% va invece all’ingegno di un bambino cui il Nazismo rubò la propria infanzia».
Oleg Mandić come vorrebbe essere ricordato?
«Se merito un po' di gratitudine è solo per aver promulgato tutta la vita la verità su Auschwitz».