Cos'è l'European Chips Act da 43 miliardi di euro che vuole «cambiare le carte in tavola per la competitività globale»
BRUXELLES - Non è la via per l'autosufficienza, ma un modo per diventare leader nel mondo. E non restare più in balia di Taiwan e degli altri giganti asiatici, rischiando che anche una sola crisi geopolitica possa mettere in ginocchio l'intera industria europea.
Con il nuovo European Chips Act da 43 miliardi di euro (44,8 miliardi di franchi) in denaro pubblico e privato, Bruxelles vuole spingere la sua produzione di semiconduttori, passando dal 10% della quota di mercato mondiale di oggi al 20% entro il 2030. Un obiettivo strategico ambizioso ma ad ostacoli, anche visti gli ingenti investimenti messi in campo dai principali rivali, amministrazione del presidente degli Usa Joe Biden compresa.
I semiconduttori sono ormai sempre più cruciali e, ha ammesso la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, «sono ovunque» nella nostra vita quotidiana e nell'industria, automotive in testa. Per darne un'idea: nel 2020 sono stati più di mille miliardi i chip fabbricati in tutto il mondo, circa 130 per ogni persona sulla Terra.
E, con la pandemia che tanto ha pesato sulla produzione e le scorte, il Chips Act vuole cambiare «le carte in tavola per la competitività globale» dell'Ue, ha scandito la presidente dell'esecutivo europeo, che punta a rendere il continente "leader".
Si tratta, nella sintesi della vicepresidente dell'Ue, Margrethe Vestager, di salvaguardare le forniture europee rafforzando la ricerca, gli impianti e la cooperazione tra i Paesi. Il tutto per evitare crisi future e interruzioni delle catene di approvvigionamento come quelle sofferte negli scorsi mesi.
Anche perché, ha rincarato il commissario per il mercato interno, Thierry Breton, la dipendenza dall'Asia è talmente forte che, se Taiwan dovesse smettere di esportare i chip, le fabbriche europee chiuderebbero «in tre settimane». E "senza semiconduttori, non c'è transizione digitale, transizione verde, e leadership tecnologica".
Per centrare l'obiettivo però servirà quadruplicare gli sforzi di produzione attuali, così come serviranno investimenti, nuove fabbriche e nuove regole commerciali. In tutto, per l'Ue si parla di 43 miliardi di euro tra finanziamenti pubblici e privati nuovi e già programmati.
Ma guardando alle cifre mostruose dei rivali, si intuisce che non sarà affatto facile competere ad armi pari: Washington mette sul tavolo 52 miliardi di dollari (47,6 miliardi di franchi) solo in finanziamenti federali, la Cina dovrebbe aver investito 150 miliardi di dollari nel settore tra il 2015 e il 2025, e la Corea del Sud dovrebbe sbloccare 450 miliardi di dollari di finanziamenti privati entro il 2030.
A dare una mano all'Ue ci sarà anche una disciplina sugli aiuti di Stato adattata per l'occasione. Seppur con le dovute cautele. Il sostegno pubblico, ha avvertito Vestager, sarà possibile solo per la realizzazione delle "mega fab", di progetti innovativi e di alleanze d'interesse europeo (Ipcei). E poi «non si possono usare i soldi dei contribuenti per avere la produzione sul proprio territorio invece che altrove».
Un secco no, insomma, a una corsa tutti contro tutti ai sussidi pubblici in Europa (a danno dei Paesi più piccoli), che risuona ancora più chiaro dopo che il Ceo del gigante statunitense Intel ha riferito che, per scegliere se investire in Germania, Francia o Italia, valuterà anche i «sussidi disponibili».
Esposta alle vulnerabilità lasciate dalla pandemia, l'Ue comunque pensa soprattutto alla partita internazionale. Tanto che nel regolamento è previsto anche un meccanismo di blocco delle esportazioni - sul modello di quello messo in piedi per i vaccini - che può essere attivato nel caso di una grave crisi nel settore. Il protocollo privilegiato da Bruxelles è la «cooperazione internazionale» con «partner che la pensano allo stesso modo, come Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud, Singapore, Taiwan e altri». Ma se questo approccio dovesse fallire, l'obiettivo dichiarato è restare in piedi sulle proprie gambe.