«Panem et circenses», finzione e geopolitica per il calcio d’Arabia, parla Dario Fabbri
«Vedremo cosa accadrà a livello geopolitico se davvero l’Arabia riuscirà a prendere lo scettro del pallone, rendendo Londra più povera e vulnerabile».
RIYAD - Cristiano Ronaldo ma non solo. Neymar ma non solo. Karim Benzema ma non solo. Roberto Mancini ma non solo. La lista di star e starlette del pallone europeo che, nel 2023, hanno deciso di salire su un aereo con destinazione Arabia Saudita è lunghissima. Tale “egira” ha una spiegazione esclusivamente economica? Non certo poveri, i calciatori hanno semplicemente scelto di andare dove lo stipendio garantito è (enormemente) più alto? Salvo rarissime eccezioni, è così: non ci sono altre motivazioni.
E cosa ha spinto, invece, la Saudi Professional League ad aprire quasi di punto in bianco i cordoni della borsa, rivoluzionando di fatto il pallone globale? “Dalle parti di Riyad si vogliono fare belli perché sperano di ottenere dalla FIFA l’autorizzazione per organizzare il Mondiale 2030”, dicono in molti. Vero, ma non basta. La Coppa del Mondo è infatti solo una parte del progetto di un Stato che ha deciso di rifarsi il look. Un progetto chiamato “Saudi Vision 2030”.
«Uno Stato che Stato non è - ci ha corretti Dario Fabbri, apprezzatissimo giornalista e analista geopolitico, direttore della rivista Domino - l’Arabia è in qualche modo il patrimonio personale della famiglia Sa’ud. Attraverso la loro “mission”, da quelle parti vogliono smentire quello che sono stati, ripulirsi l’immagine nei confronti dell’Occidente. Stanno dicendo: “Non siamo quei cattivoni che tutti voi credete, siamo anche capaci di fare grandi cose e vorremmo diventare un punto di riferimento a livello globale per lo sport, per lo svago. L’Arabia è anche altro oltre a quello che conoscete”. Ci riusciranno? Probabile. Io in ogni caso non credo a una trasformazione reale della società. Non credo al mitico e mitologico rinascimento saudita. Tutto questo rimarrà sopra la testa delle persone».
Niente occidentalizzazione?
«No, per nulla. Non è quello lo scopo finale. Stiamo parlando solo dell’immagine di sé che vogliono dare. Ma c’è uno scarto tra quello che sono e quello che vogliono mostrare».
La monarchia sta adoperandosi per accrescere il controllo dello Stato sulla religione; in Arabia, in ogni caso, il fondamentalismo è ancora estremamente diffuso e influente. Come si può dunque pensare che i cittadini accettino i lustrini?
«Cittadini da quelle parti non ci sono: ci sono i sudditi. E non è una differenza da poco. Questo meccanismo è tipico delle società autocratiche. C’è un regime autoritario, fondamentalista in questo caso, che al popolo dà panem et circenses».
Un po’ come gli spettacoli romani al Circo Massimo o al Colosseo?
«Esatto. Un po’ come i Romani ma senza il piglio imperiale. È come se ai sudditi sauditi venisse detto: “Occupatevi dello svago e rinunciate ad avere diritti come li intendiamo noi in senso occidentale - che comunque non avranno mai - e pure una società democratica. In più, in cambio, avrete pure sussidi ed elargizioni».
E l’Occidente che pensa della mano di vernice fresca che in Arabia vogliono passare sulla loro immagine?
«La vive con finta approvazione. Ci sono delle resistenze, perché stiamo comunque parlando di un regime, di un Paese nel quale diritti e libertà non sono in alcuni casi ancora contemplati. Faccio un esempio: in Arabia le donne hanno da poco ottenuto l’autorizzazione a guidare un’automobile. E questo, in quanto a diritti, è il minimo, del minimo, del minimo, del minimo. E potrei continuare con “minimo” ancora lungo. Questo l’Occidente lo sa, lo fa notare, ma non calca troppo la mano: pensa ovviamente prima di tutto ai suoi interessi».
Il controllo del calcio, nello specifico, può essere ceduto a cuor leggero?
«No, questo no. La Saudi Professional League sta chiaramente sfidando la Premier League con l’intento di diventare la prima lega mondiale. Di diventare la NBA del calcio. Una Premier League che ora domina ma che non è inattaccabile. Già nel 2021, per esempio, traballò quando alcuni dei suoi club più importanti aderirono al progetto della SuperLega. In quel caso, anche grazie all’energico intervento dell’allora Primo Ministro Boris Johnson, conscio che un’uscita di alcune squadre l’avrebbe indebolito, il campionato si salvò».
Lo sport che aiuta a ripulire la propria immagine e che aiuta a guadagnare consensi e visibilità.
«E peso a livello internazionale. Gli Stati Uniti non sono troppo interessati a questa storia del calcio; sono in ogni caso comunque legati, commercialmente e storicamente, all’Inghilterra. Sarà interessante vedere cosa accadrà a livello geopolitico se davvero l’Arabia riuscirà a prendere lo scettro del pallone, rendendo Londra più povera e vulnerabile».