Noele Trisconi a un anno dal suo addio alle competizioni: «L'hockey è stata una scuola di vita»
AMBRÌ - È passato un anno dal momento in cui Noele Trisconi ha deciso di appendere i pattini al chiodo. Giunto a naturale scadenza del suo contratto, l'Ambrì aveva deciso di non rinnovare l'accordo con l'allora suo numero 18. Una decisione, quella presa dal club leventinese, che aveva messo il giocatore davanti a un bivio: cambiare squadra o fare altro. Alla fine, Trisconi aveva intrapreso quest'ultima via... «Mi sento bene con me stesso - è intervenuto l'ex attaccante dell'HCAP - Ho dovuto cambiare molte abitudini, questo sì, ma piano piano ho trovato il mio ritmo e adesso ho ingranato. Ci è voluto un po' di tempo, ma penso sia normale. Adesso ho gli orari di ufficio, qualcosa di completamente diverso rispetto a ciò a cui ero abituato».
È rimasta un po' di amarezza per come è finita?
«Diciamo che la decisione di smettere l'ho presa io, malgrado avessi qualche opportunità per continuare a giocare. Non erano però soluzioni allettanti e che mi convincevano. Una volta presentatasi la possibilità di immettermi nel mondo bancario (Noele si occupa di consulenza aziendale, ndr) ho ragionato a lungo termine e ho pensato che sarebbe stata la decisione più corretta per il mio futuro lavorativo. Sono felice, mi trovo bene con il team con cui lavoro e non rimpiango nulla».
Cosa ti manca di più della vita hockeistica?
«Senza alcun dubbio lo spogliatoio. È la cosa bella del professionismo. Si è sempre tutti assieme, si fa gruppo, si ride, si scherza. Al posto di vedersi al bar ci si trova nello spogliatoio. Non ci sono solo allenamenti e partite, c'è molto di più».
E la cosa che ti manca meno? Magari la preparazione atletica?
«No, direi di no. A me piaceva far fatica e il lavoro estivo non mi pesava affatto. Ancora oggi, vado in palestra tutte le settimane. Chiaro, si fa fatica, si suda, ma poi quando vedi che i risultati arrivano si è contenti».
Ti fa star male guardare una partita dell'Ambrì?
«L'anno scorso alla Gottardo Arena sono andato soltanto una volta. Almeno inizialmente guardare le partite, in special modo quelle dell'Ambrì, mi faceva ancora un certo effetto poiché a volte mi dicevo "Potevo essere lì". Tuttavia, con il passare delle settimane e dei mesi è andata meglio, ho elaborato il tutto... Ma faccio sempre il tifo per i miei amici che giocano ancora. Se ho ancora sentito Duca e Cereda? No, non ho più avuto contatti».
Non hai mai avuto il pensiero di tornare, magari in una squadra amatoriale?
«Ho diversi amici che giocano nelle leghe amatoriali che mi hanno chiesto di dare una mano. Al momento però mi godo i miei inverni e le mie estati senza pensare troppo all'hockey. Anche se, già dall'anno scorso, do una mano ad allenare gli Juniori del Bellinzona... ».
Ti vedi, in un futuro, nelle vesti di allenatore?
«Cerco di trasmettere ai ragazzi quello che ho imparato nella mia carriera. Sono una persona molto severa, quando c'è da giocare si gioca ma quando c'è da lavorare seriamente si lavora seriamente. Malgrado ciò, come allenatore a livello professionistico non mi ci vedrei, soprattutto perché serve molta elasticità e devi essere pronto a spostarti da un momento all'altro. È questo l'aspetto che mi spaventerebbe di più. Personalmente, un po' come a tutti credo, preferisco una vita più stabile. Ciò non toglie che a livello giovanile mi piace molto quello che faccio».
Cosa ti ha lasciato l'hockey?
«È stata una scuola di vita, a 360 gradi. Già solo stare in uno spogliatoio ti aiuta a crescere, ti arricchisce. Sei con tante persone, ognuna delle quali diversa dall'altra, conosci diverse culture e devi imparare a comportarti in un certo modo, capendo come si sta al mondo e cercando di assorbire qualcosa da ogni compagno. Personalmente ho sempre avuto molta facilità a farmi degli amici in spogliatoio ed è per tale motivo che è l'aspetto che più mi manca del mio passato».