“Non sono più cappuccetto rosso”, la struggente storia della giornalista ticinese Roberta Nicolò approda al cinema
La terribile vicenda, dopo essere approdata in libreria nel 2015, prende adesso la forma di un cortometraggio dal forte impatto. La regia è di Giona Pellegrini.
LUGANO - Abusata all’età di cinque anni da un imbianchino che lavorava nella casa di una vicina. È la storia della giornalista ticinese Roberta Nicolò, classe 1972. Una vicenda terribile che dopo essere approdata in libreria nel 2015 (“Non sono cappuccetto rosso”), oggi è diventata un film. La stessa Roberta Nicolò racconta come vede, da diretta interessata, il cortometraggio “Non sono più cappuccetto rosso”.
Dopo avere pubblicato la sua storia in un libro, ora l'ha trasformata in un film. Perché?
«Perché dopo l’uscita del racconto molte persone, altre vittime, mi hanno contattata condividendo le loro emozioni. Tanta condivisione mi ha profondamente commossa. Da allora porto la mia esperienza dove serve, contribuendo attivamente alla sensibilizzazione e alla promozione della prevenzione».
Il film rappresenta dunque un passo ulteriore nell’ambito di questa sensibilizzazione?
«Mi sono chiesta come potere lanciare un piccolo segnale di speranza e arrivare anche a chi, magari, non preferisce la lettura. Amo il cinema e la risposta è stata naturale: farne un film. Il cinema ha un linguaggio diretto e potente. È un mezzo di comunicazione universale che parla davvero a tutti. Ho chiamato il regista Alberto Meroni che ha subito risposto con entusiasmo e mi ha proposto di lavorare con il giovane regista Giona Pellegrini».
La pellicola si chiude con un palloncino rosa che vola via, nel cielo. Che significato attribuisce a questa scena?
«La scena di chiusura rappresenta il trauma che si fa leggero e vola via. È il simbolo della libertà che raggiungi attraverso la terapia. La psicoterapia è un percorso che aiuta a comprendere le ragioni profonde del tuo malessere. Ti accompagna e ti sostiene dandoti la forza per affrontare i traumi e i dolori della tua vita».
Quale è stata la sua esperienza a tal proposito?
«Affrontando la rabbia, la frustrazione, il dolore acquisisci gli strumenti che ti permettono di lasciare andare. Di liberarti del peso che ti stai portando dentro. Un peso che solo tu puoi levarti di dosso. Il fardello si fa quindi leggero e tu puoi affrontare la vita con uno spirito nuovo».
Ci sono anche tanti silenzi. Devastanti.
«Il silenzio sottolinea il fatto che le parole, soprattutto le parole della sofferenza, hanno un significato intimo e molto personale. Che hanno un valore profondissimo. La loro assenza, nel film, fa sì che sia lo spettatore a dover mettere le parole. A dover prestare attenzione agli sguardi, ai gesti. Quell’attenzione che non è sempre facile avere nella vita di tutti i giorni. Questo crea un impatto forte».
Qual è la scena che più l’ha colpita?
Difficile dire quale scena preferisco, perché ogni scena è un pezzetto di me. Ma forse, quella in cui la protagonista entra nell’ascensore, trovando la forza di affrontare il suo passato, è la più significativa. Rappresenta l’istante preciso nel quale per lei si apre la possibilità di una vita del tutto nuova.
I casi dichiarati di pedofilia in Svizzera sembrano essere sempre di più. Qual è la sua sensazione ogni volta che ne sente parlare?
«Dice bene. Sembrano. Oggi, per fortuna, se ne parla di più, si fa prevenzione, e questo fa sì che un abuso possa essere scoperto e denunciato con maggiore facilità rispetto al passato. Così emergono più casi e questo è un bene. Ma ancora tanto c’è da fare. Ogni nuovo caso fa male e dimostra, una volta di più, quanto la prevenzione sia importante e vada incrementata e sostenuta. Anche in questo caso le parole hanno un grande peso, occorre ricordare che quando si parla di abuso su minore ci si muove su un terreno delicatissimo».
Oggi come sta Roberta Nicolò?
«È da chiarire che né il libro, né il film sono strumenti per superare il trauma. Il trauma l’ho superato più di dieci anni fa con la psicoterapia. È molto importante capire questo perché sennò si rischia di dare un’informazione sbagliata. Dopo la fine della terapia, sono passati diversi anni prima che scrivessi “Non sono cappuccetto rosso”. Espormi pubblicamente non ha cambiato nulla dal punto di vista terapeutico. La soluzione dei problemi è arrivata con il lavoro intenso fatto con la mia psicologa».
Quindi?
«Io sto bene, sono serena e soprattutto abbastanza forte per mettere la mia esperienza a servizio della prevenzione. Il libro e il film rappresentano solo un contributo per sensibilizzare il pubblico sul tema e offrire un sostegno a chi, con professionalità e competenza, si occupa di prevenzione e di accompagnamento alle vittime. E non da ultimo di prevenzione rivolta ai possibili abusanti. È a loro che ci si rivolge in caso di bisogno. Ognuno fa il suo mestiere. Io lavoro nella comunicazione, e quindi uso questa competenza per portare l’attenzione sul tema. Ma sono i professionisti coloro ai quali dobbiamo affidarci per affrontare i nodi della nostra vita. Senza la terapia non sarei qui a raccontare la mia storia».