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L'OSPITEChiudere le scuole? Il fallimento di un sistema

10.01.21 - 13:06
Lucio Negri, consigliere comunale Brusino Arsizio
Lucio Negri
Chiudere le scuole? Il fallimento di un sistema
Lucio Negri, consigliere comunale Brusino Arsizio

Dopo questo periodo natalizio e l’avvento dell’anno nuovo i numeri dei contagi in Svizzera e in Ticino non tende a diminuire. C’è chi reclama nuove misure, soprattutto da un settore sanitario che da mesi ormai boccheggia in carenza di posti letto e personale allo stremo.

Ci sono stati gli impianti sciistici aperti, i negozi di beni di lusso aperti, i cantieri riaprono, ma si torna a parlare della chiusura delle scuole. Come in primavera. Chiudere la scuola, di nuovo, ora che il ritmo era stato preso, ora che le misure di protezione sono state implementate e interiorizzate da allievi e docenti e soprattutto dopo due settimane di chiusura per le vacanze natalizie dove abbiamo visto che l’incidenza del mondo della scuola sul numero dei contagi è stato pari a zero. Chiudere le scuole e magari mantenere le attività non indispensabili aperte, i negozi senza beni di prima necessità aperti.

La chiusura della scuola sarebbe il fallimento competo della gestione politica di questa seconda ondata, che sapevamo sarebbe arrivata, che abbiamo visto arrivare, ma contro cui ci si è limitati a chiudere laddove non vi era un riscontro economico importante, senza curarsi dei bisogni sociali della popolazione (pensiamo al mondo culturale, abbandonato quasi fosse una zavorra di potenziali contagi, per poi passare alla ristorazione) e soprattutto senza misure chiare su come sopperire a queste chiusure per chi in questi ambiti lavora. Il mondo economico, aziendale, fatturiero invece ha ripreso e mantenuto i suoi ritmi produttivi, cosi come i consumi. Abbiamo visto l’intera classe politica fare salti mortali, sfociando spesso nell’incoerenza, per mantenere aperte attività non indispensabili, ma legate ai giganti dell’economia nazionale.

Arrivare a chiudere le scuole vuol dire non essere intervenuti prima laddove necessario, aver avuto priorità diverse da quelle di proteggere il futuro formativo e professionale dei nostri ragazzi, piuttosto che il profitto economico di questi mesi.

Lukas Engelberg, presidente della conferenza dei direttori cantonali della sanità, ha recentemente dichiarato che la scuola “da il ritmo” alla vita quotidiana. “Se gli allievi seguissero un insegnamento a distanza, i genitori resterebbero anch’essi di più a casa.” Ma nessuno spiega come faranno i genitori a rimanere a casa se sono commessi, impiegati, magazzinieri, postini, operai, infermieri, operatori socio-sanitari.

Era stato evidenziato in primavera come l’insegnamento a distanza avesse ampliato le differenze sociali nella popolazione scolastica, le difficoltà che i genitori incontravano nel seguire i programmi scolastici dei propri figli, tentando disperatamente di stare al passo e dare un ordine in casa tra svago e obbligo scolastico. Stiamo tornando li, dove non avremmo mai voluto tornare. Ma c’è chi lo invoca a gran voce, nell’ambito politico e istituzionale, senza vergognarsi, come se chiudere una scuola fosse come abbassare la saracinesca di un negozio. Invece le saracinesche rimangono su, e le persone sono chiamate esclusivamente a produrre profitto e consumare beni.

Il mondo economico non può continuare a galoppare con il paraocchi come se le proprie scelte e le proprie necessità non fossero concatenate a tutta un’altra serie di scelte e bisogni dell’intera società, e la politica non può continuare a reggere questo gioco. La scuola è il fulcro di tutto, non l’economia. Se rimaniamo in questo paradigma dove il bene economico è prioritario sul bene sociale da questa crisi non ne usciremo mai. Se i binari delle necessità economiche e dei bisogni sociali non andranno paralleli il treno della nostra società deraglierà, e stiamo già sbandando.

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