A causa delle complicazioni legate al Covid il sistema d'approvvigionamento globale è al collasso, l'allarme all'Onu
NEW YORK - Stanno facendo il giro del mondo le foto del Regno Unito, che si tratti degli scaffali vuoti o delle pompe di benzina agli sgoccioli e con file interminabili. E se è vero che - in (buona) parte - c'entra la questione Brexit è altrettanto vero che in questo mondo che si vuole post-pandemia gli strascichi della crisi che ci ha accompagnato nell'ultimo anno e mezzo comincino a farsi sentire davvero solo oggi.
Che manchino microchip, materie prime di varia tipologia e pure la carta, già se ne parla, ma che inizino a mancare le persone che 365 giorni all'anno lavorano per spostare praticamente tutto - e portarlo nelle industrie e nei negozi - si inizia a capire solamente in questi giorni.
E non si tratta solamente dei camionisti, il tasto dolente nella sopracitata questione nel Regno Unito - ma anche di chi lavora sulle navi cargo, nei porti, nelle aree di smistamento di aeroporti e ferrovie: «È tutto il sistema che rischia il collasso», spiega una lettera aperta presentata alle Nazioni Unite da diverse associazioni molto grosse della logistica mondiale, «dopo due anni d'incertezza, frenate e ripartite, hanno sfibrato i nostri lavoratori che cominciano ora ad accusare il colpo», riporta il documento.
Fra i firmatari dell'appello c'è la International Chamber of Shipping (ICS), Air Transport Association (IATA), la International Road Transport Union (IRU) e la International Transport Workers' Federation (ITF) che rappresentano circa 65 milioni di lavoratori del settore.
«La catena di approvvigionamento globale è molto fragile», ha spiegato il segretario generale della ITF Stephen Cotton, «dipende tanto dal marinaio di cargo filippino quanto dal guidatore di camion locale, che consegna i beni nelle mani dei commercianti».
Un popolo, se non una nazione visto il numero sterminato di persone che ne fanno parte, che si muove tutto l'anno lasciando a casa radici e affetti. Separazioni che la pandemia e le sue restrizioni ha reso critiche, se non insopportabili, portando diversi ad abbandonare per sempre il lavoro.
Dai camionisti incastrati in dogana per giorni e giorni e che non riescono a rientrare a casa in tempo per le Feste ai marinai bloccati in mare per mesi, e in alcuni anni per più di un anno. Sono in decine di migliaia, scrive Cnn Business, i marinai che negli ultimi 18 mesi non sono ancora riusciti a tornare a casa. Questo perché in tutto questo tempo, cambiare il personale di bordo come si fa solitamente ovvero via aereo, è risultato impraticabile. Secondo una stima dell'ICS il numero di persone che è dovuto restare forzatamente sui mercantili è stimabile attorno alle 400'000 unità.
Un lavoro da prima linea, quello di portare cibo e altri beni di prima necessità nei paesi di tutto il mondo, che per molti si è tramutato un po' in una missione. Ma, visti gli sforzi profusi e i sacrifici, è probabile che questo dicembre - al momento di rinegoziare i contratti - in diversi preferiranno lasciare, se già non lo hanno fatto negli scorsi mesi.
E anche chi accetterà di continuare, dovrà fare i conti con le misure legate al Covid che complicano di molto le cose. Da una parte ci sono i vaccini che non ovunque vengono accettati (e molti devono farne diverse dosi, e di diversi tipi) e non sono comunque equamente somministrati (nel Sud-Est asiatico la percentuale di lavoratori immunizzati è bassa, attorno al 25%).
Dall'altra i tamponi alle dogane (che portano a scenari surreali di 1/2 tamponi al giorno per i trasportatori nell'Unione Europea) e/o i controlli di documenti come il Green Pass che generano rallentamenti comunque da non sottovalutare. Infine c'è la quarantena, che in alcuni Paesi di fatto cancella le vacanze di chiunque sia di ritorno.
La richiesta portata davanti all'Onu è quindi che i Paesi si muovano in maniera coordinata per rendere la vita di queste persone il più semplice possibile, semplificando i protocolli legati al Covid e garantendo una maggiore mobilità internazionale.