La legge non permette ai media di rivelare l’identità dell’ex funzionario condannato per coazione sessuale. Gli esperti: «Escluso se ciò consente di identificare la vittima»
LUGANO - “La stampa ha protetto il nome dell’ex funzionario del Dss condannato per coazione sessuale”. Non è andato per il sottile un noto avvocato (e polemista) che in un post su Facebook ha rivelato l’identità che tutti sanno. «Stupisce che si cancelli il nome - ha aggiunto il penalista -, malgrado sia un personaggio pubblico».
Eccezioni ma non qui - Il post dell'avvocato si riferisce ai casi in cui i nomi dei protagonisti possono venir fatti nelle cronache giudiziarie. Sono le eccezioni giustificate da un prevalente interesse pubblico. In particolare quando (e citiamo da una presa di posizione del Consiglio svizzero della stampa) «l’interessato riveste una carica pubblica o una funzione pubblica e l’accusa riguarda un atto incompatibile con tale carica e funzione». Parrebbe un abito tagliato su misura per questa vicenda che ha coinvolto, come hanno riferito in più occasioni negli ultimi mesi i media, «un 59enne attivo da anni nell’ambito delle politiche giovanili».
Prevale il Codice penale - Parrebbe, perché in realtà sulle eccezioni citate hanno la precedenza le limitazioni - tanto più ferree quando si tratta di reati contro l’integrità sessuale - stabilite dal Codice di procedura penale svizzero. E su questo aspetto il parere di un esperto in materia, l’ex Procuratore generale John Noseda, è netto. La pubblicazione del nome della persona condannata, spiega a Tio/20Minuti, l’ex capo del Ministero Pubblico, «è categoricamente esclusa se consente l’identificazione della vittima». Nel caso specifico, osserva, «se il giudice stesso ha celebrato il processo a porte chiuse è per evidenti ragioni. Inoltre se la procuratrice, e il giudice, non hanno voluto divulgare questo nome è perché c’era un pericolo che la vittima potesse essere identificata».
Pubblicare è reato - La legge dunque è chiara, e poco importa se nel caso specifico il nesso carnefice-vittima non permette verosimilmente di rivelare la parte lesa. Il rischio, per il giornale che vuole comunque fornire questi particolari è quello, su questo Noseda è altrettanto chiaro, «di commettere un reato penale». Poco importa se questa protezione della vittima, che è sacrosanta e condivisibile, ha l’effetto collaterale di proteggere anche il colpevole… «Il punto centrale resta - replica l’avvocato Noseda - che non solo non si può fare il nome della persona processata, ma anche fornire informazioni che consentano l’identificazione delle potenziali vittime».
Facebook non è un alibi - «Questo è un caso tipico, chiaro e netto. Chi ha firmato la “Dichiarazione dei doveri e dei diritti del giornalista” non può pubblicare il nome - commenta Enrico Morresi, decano dei giornalisti e per anni membro autorevole del Consiglio della stampa -. Il fatto che il nome compaia su Facebook non autorizza evidentemente i media classici, e seri, a pubblicarlo. La separazione deve essere netta. Le testate serie hanno le loro regole. Tanto più in un caso sub judice il nome non va fatto». Nello specifico la legge, secondo Morresi, non è ipergarantista, «ma giusta».
Basterebbe Google... - «Una furbata - aggiunge - «potrebbe essere quella di dire al lettore: “Noi abbiamo una deontologia e il nome non lo diamo, se volete saperlo andate su Facebook”. Ma sarebbe ipocrisia visto che chi è interessato questa informazione già la possiede». Tanto più che, da quando lo scandalo è esploso, il web dà conto di decine di articoli che menzionano il citato “ ex funzionario del Dss” ed “esperto di politiche giovanili”. Basterebbe incrociare il tutto su un motore di ricerca…
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