Il "tifo" per i due fronti adombra i fatti. Il sociologo Cattacin: «C’è stata una radicalizzazione delle posizioni».
Nella situazione attuale il percorso della mediazione fra le parti rimane molto difficile: «Con le ruspe c'è stata una sorta di dichiarazione di guerra. E la guerra strategicamente non è una situazione in cui si può mediare».
LUGANO - L’amianto che c’è, ma in quantità non pericolose. Una chiamata, quella che ha fatto squillare il telefono del vicepresidente della Fondazione Vanoni - Riccardo Caruso - la sera del 29 maggio, dalle tempistiche quantomeno insolite. I tasselli, o meglio i fatti, ricompongono gradualmente la nebulosa catena di eventi che ha portato le ruspe in Viale Cassarate. Nel mentre, a contorno della vicenda si è sviluppata una linea narrativa da contesa “sportiva” un po’ grottesca: di quelle in cui non ci sono tribune, ma solo curve.
Così i fatti si eclissano dietro ai colori e anche quella dell’ex Macello diventa una questione di “tifoseria”, ma non nella sua accezione più positiva; come quella che nelle ultime settimane ha animato gli entusiasmi - purtroppo stroncati dalla sentenza impietosa degli undici metri - attorno alla nazionale rossocrociata a Euro 2020. Torniamo però a Lugano. Perché è accaduto questo? «C’è stata sicuramente una radicalizzazione delle posizioni, che si sono ripetute nel tempo», ci spiega Sandro Cattacin, sociologo e direttore dell'Istituto di ricerche sociologiche dell’Università di Ginevra. «I gruppi non si sono parlati. E soprattutto da parte del Comune c’è stata poca disponibilità. E questa si è trasformata, con le ruspe, in una specie di dichiarazione di guerra. Si parla ora di mediazione, ma in questo momento è chiaro che non c’è spazio per una mediazione. La guerra strategicamente non è una situazione in cui si può mediare».
«Allo stadio è un rituale di guerra civilizzato. Nella politica no»
Quella in corso è in altre parole una partita che, al netto dei (simil) cori da stadio, lascia intravedere ben poco di sportivo. «Il confronto tra tifosi allo stadio è una specie di rituale di guerra civilizzato. Alla fine uno perde e uno vince e si rimanda tutto alla prossima partita, o al prossimo derby. Ci sono state esasperazioni anche in questo ambito, ma di solito sono ben regolate. Si trovano, si urlano contro e poi si passa ad altro. Nella politica invece non è così. E questi scontri rituali avvengono quindi sempre e solo per far avanzare la politica». Secondo Cattacin l’origine di questa situazione in Svizzera va ricercata riportando la lancetta indietro fino agli anni ‘80.
A partire da quel periodo «con la radicalizzazione delle iniziative, il rituale del confronto ha iniziato ad avere conseguenze più pesanti». «Ci sono rotture che fanno sì che il sistema non riesca a ricomporre le sue parti. E questa è una debolezza che emerge oggi dal sistema politico». In particolare, prosegue Cattacin, ad aver perso forza e, di conseguenza, la capacità di gestire le problematiche in modo pragmatico, è in particolar modo lo “Stato nazione”, mentre a livello nazionale si è contrapposta una virata verso la «politica da tifoseria» e il populismo.
«C’è una chiarissima voglia di polemizzare per mettersi in evidenza e ottenere consensi». Ed è una polemica, spesso alimentata dall’indignazione, che attraverso i social media si propaga rapidamente, ponendo i fatti concreti (con il loro peso specifico) - uno sgombero, un’occupazione, una demolizione improvvisa in piena notte - all’ombra dei rispettivi ideali e principi. In sintesi, tutta la faccenda sembra ridursi a una domanda: ma stai con l’autogestione o con il Municipio? E nel mentre le domande e i dubbi di chi non si schiera restano in ghiaccio. «Ed è un’incomprensione che fa riflettere un po’ tutti».
«Una tempesta necessaria»
L’impasse attuale in cui si trovano l’autogestione e l’esecutivo luganese è, secondo Cattacin, una sorta di calma prima della tempesta. Una «tempesta, purtroppo, necessaria». Per il sociologo si respirano le avvisaglie di una «forte mobilitazione contro la Lugano in cui nulla cambia»; la necessità di ripensare il proprio modello, aggiunge, riguarda però in generale il Ticino. «La costruzione di una posizione urbana forte, che si possa contrapporre in un certo senso alla politica comunale, è il primo passo. Questa coalizione la troviamo in molte città, ma non in Ticino».
Si parla quindi di ribaltare il paradigma attuale, con il focus che dal Molino deve essere spostato sull’idea di città che si vuole per domani. «Il potenziale di una coalizione così in Ticino c’è. Da quando c’è l’università il Ticino “produce” giovani che sanno parlare, che si impegnano per l’architettura sostenibile… ma che poi si ritrovano a scappare dal Ticino. Se trovassimo il modo di farli restare qua... Ecco, questo sarebbe un passo importante per far pensare a un futuro più roseo. E così quella di domani sarà un’altra Lugano».